Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio in itinere e deviazione per riaccompagnare a casa un collega
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Licenziamento disciplinare
Concorso interno, criteri per la progressione economica

Infortunio in itinere e deviazione per riaccompagnare a casa un collega

Cass. Sez. Lav., 3 agosto 2021, n. 22180

Pres. Manna; Rel. Consigliere Calafiore; P.M. Fresa; Ric. P.M.+1; Controric. I.N.A.I.L.

Lavoro subordinato – Infortunio in itinere – Deviazione per riaccompagnare a casa un collega – Rischio elettivo – Sussiste – Indennizzo agli eredi – Esclusione

In tema di infortuni sul lavoro, gli eredi del lavoratore non hanno diritto all'indennizzo per infortunio in itinere se il congiunto è deceduto mentre accompagnava a casa un collega. La scelta, fatta per motivazioni del tutto personali, di effettuare un percorso diverso rispetto al normale tragitto lavoro-casa interrompe, infatti, il nesso causale e funzionale con l'attività lavorativa e rientra nel cd. rischio elettivo inteso come tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l'attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore.

NOTA

Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Roma, in riforma della decisione di prime cure, aveva respinto la domanda della ricorrente, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui figli, tesa ad ottenere il riconoscimento del diritto alla rendita ai superstiti ed all'assegno una tantum previsti dall'art. 85 D.P.R. n. 1124 del 1965, in ragione del decesso del proprio coniuge avvenuto a seguito di incidente stradale occorso nel tragitto casa-lavoro.Secondo la Corte territoriale l'infortunio non poteva rientrare tra quelli indennizzabili poiché il tragitto percorso dal lavoratore deceduto non era quello normalmente utilizzabile per raggiungere il luogo di lavoro: la circostanza che lo stesso avesse deciso di accompagnare a casa un collega privo di mezzo di trasporto integrava, infatti, il rischio elettivo idoneo, secondo la giurisprudenza, ad interrompere il nesso tra condotta ed evento.Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la coniuge del defunto sostenendo, per quanto di interesse, la erroneità della pronuncia della Corte d'Appello nella parte in cui aveva ritenuto che la decisione del defunto di riaccompagnare il collega a casa integrasse l'ipotesi di rischio elettivo. Secondo la ricorrente, infatti, la decisione in questione non era stata frutto di una scelta volontaria del lavoratore volta a soddisfare esigenze personali, ma derivava dal fatto che tale compito era stato affidato al lavoratore dal datore di lavoro. La deviazione effettuata dal lavoratore, dunque, non sarebbe stata - secondo la ricostruzione della ricorrente - del tutto indipendente dall'attività lavorativa e pertanto tale da configurare il rischio elettivo accertato dalla Corte così da escludere il diritto all'indennizzo richiesto.La Suprema Corte ha respinto le censure e rigettato il ricorso.In particolare la Cassazione, dopo aver confermato che l'indennizzo per l'infortunio sul lavoro è dovuto in tutti i casi di infortunio avvenuto per causa violenta «in occasione di lavoro» che cagionino un'inabilità al lavoro superiore a tre giorni, «con l'unico limite del rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non riguardante l'attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore», ha rilevato che nel caso di specie la Corte territoriale ha accertato che la scelta di accompagnare a casa il collega fosse stata proprio una scelta personale del lavoratore defunto, non determinata da alcuna richiesta del datore di lavoro, e che quindi «l'evento fu frutto di un arbitrario aggravamento del rischio determinato dalla condotta del lavoratore» poiché «la mancata percorrenza dell'iter normale per raggiungere la propria abitazione dal lavoro è stata il frutto di una scelta nell'ambito di una pluralità di alternative possibili».

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 10 agosto 2021, n. 22583

Pres. Berrino; Rel. Amendola; P.M. Mucci; Ric. C.D.C.; Controric. B.P.S. S.C.p.A.

Licenziamento – Fattispecie: impiegato di banca che effettua una serie di operazioni irregolari – Giusta causa – Sussistenza – Contestazione disciplinare – Contenuto – Indicazioni necessarie ed essenziali – Sufficienza – Requisito – Specificità – Violazione – Concreta lesione del diritto di difesa – Necessità

Ai sensi dell'art. 7, co. 2 della l. n. 300 del 1970, ai fini della legittima irrogazione di una sanzione disciplinare la previa contestazione dell'addebito è da intendersi come esposizione dei soli dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a base della sanzione da irrogare; pertanto, per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile per ritenere provata la non genericità della contestazione.

NOTA

La Corte di Appello di Milano, confermando integralmente la sentenza resa dal giudice di prime cure, ha giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un impiegato di banca che aveva effettuato una serie di operazioni in violazione della normativa antiriciclaggio.In particolare, secondo la Corte distrettuale, il compimento da parte del lavoratore di operazioni non conformi alle disposizioni di legge e alla buona prassi esistente presso l'Istituto bancario, era tale da legittimare l'irrogazione della massima sanzione espulsiva e la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, in ragione della ricorrenza dei fatti addebitati e della loro sussumibilità nella nozione di giusta causa prevista dall'art. 2119 c.c.Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso per cassazione il lavoratore lamentando, principalmente, la violazione del principio di specificità della contestazione disciplinare e la sua intrinseca genericità nella individuazione dei fatti contestati.Ebbene, i giudici di legittimità, nel rigettare le doglianze promosse dal prestatore, hanno ribadito come: «la contestazione disciplinare deve delineare il solo addebito, come individuato dal datore di lavoro, e quindi la condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo da tracciare il perimetro dell'immediata attività difensiva del lavoratore». Conseguentemente, intanto può ritenersi sussistente violazione del principio di specificità, in quanto sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore desumibile dall'attività svolta in sede di giustificazioni. In altri termini, secondo l'impianto argomentativo espresso dalla Corte di cassazione, la parte datoriale può certamente limitarsi – in sede di contestazione disciplinare – all'individuazione dei soli fatti nella loro dimensione puramente materiale derivando, il vizio di genericità, dalla sola prova del mancato (o menomato) esercizio delle prerogative difensive del prestatore. Pertanto, l'atto di avvio del procedimento disciplinare deve ritenersi non affetto da genericità tutte le volte in cui l'attività di difesa (invio delle giustificazioni, etc.) sia stata di fatto esercitata dal lavoratore.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav., 10 agosto 2021, n. 22591

Pres. Berrino; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.S.; Controric. G. S.p.A.

Licenziamento per superamento del comporto – Disciplina CCNL Terziario – Due distinti periodi per infortunio e malattia – Fattispecie: assenza per infortunio seguita da assenza per permessi connessa allo stato di salute post infortunio – Diritto al doppio computo – Esclusione

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 175 e 177, nonché della dichiarazione a verbale in calce al predetto art. 177, del CCNL per i dipendenti delle aziende del settore terziario, ogni periodo di comporto ha durata di 180 giorni, sicché, nel caso in cui all'infortunio succeda, anche senza alcuna soluzione di continuità, un periodo di assenza per malattia, inizia a decorrere, dal momento dell'insorgenza della malattia, un distinto termine di 180 giorni, talché non può procedersi a licenziamento per superamento del periodo di comporto se non quando sia decorso il periodo considerato. Tuttavia non può essere considerata a tal fine una nuova malattia (con conseguente esclusione di un nuovo periodo di comporto) l'assenza formalmente imputata a permessi non retribuiti ma in realtà connessa alla permanenza del medesimo stato patologico conseguente al primo infortunio.

NOTA

Una dipendente veniva licenziata per superamento del periodo di comporto.La Corte d'Appello di Potenza, decidendo sul reclamo della datrice di lavoro avverso la sentenza di primo grado, respingeva la domanda della lavoratrice volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento.La Corte d'Appello non seguiva l'iter argomentativo del Tribunale, ritenendo che «non sussistesse alcuna effettiva cesura fra il periodo di sospensione della prestazione per l'infortunio occorso alla dipendente in data 22 maggio 2015 e quello successivo alla presunta cessazione dello stesso in data 10 novembre 2015, dovendo imputarsi entrambi i periodi al medesimo accadimento storico e non, invece, a due distinti episodi di malattia susseguitisi nel corso dell'anno solare ed entrambi rispettosi del termine di 180 giorni previsto dalla contrattazione collettiva come ritenuto dal Tribunale».La lavoratrice impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado in Cassazione.La Suprema Corte rigetta il ricorso evidenziando che il Giudice territoriale aveva correttamente ritenuto «configurabile un unico periodo di sospensione dell'attività lavorativa, determinato dall'originario infortunio del 22 maggio» escludendo di fatto che «il secondo periodo di astensione dall'attività lavorativa potesse configurarsi quale nuova malattia, ritenendo, piuttosto, che lo stesso si collegasse direttamente all'infortunio sul lavoro occorso alla dipendente nel maggio 2015».E, infatti, la Corte territoriale aveva evidenziato «dopo aver richiamato tutti i periodi di sospensione dell'attività lavorativa susseguitisi dal 22 maggio all'11 novembre ... come in tale ultima data la dipendente fosse abile al servizio ma inidonea alle mansioni specifiche, talché la società datrice … aveva provveduto a collocarla prima in ferie sino al 17 e poi in permesso non retribuito sino al 22, come da lei accettato» e che quindi «la cesura dall'11 al 22 novembre aveva creato una soluzione di continuità con l'infortunio soltanto formale, per la scelta del datore di lavoro come accettata dalla lavoratrice, atteso che, posta la permanenza del medesimo stato patologico, consistente nel trauma distorsivo della spalla destra, lo stesso non poteva che causalmente ricollegarsi all'originario infortunio, con la sola differenza che la sospensione dal lavoro veniva imputata concordemente fra le parti non allo stato patologico, bensì a permessi non retribuiti».

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav., 10 agosto 2021, n. 22592

Pres. Berrino; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. V.G.; Controric. T.I. S.p.A.

Licenziamento individuale – Licenziamento disciplinare – Illecito penale – Tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva – Non vincolatività – Giudizio di gravità – Giudizio di proporzionalità – Competenza del giudice di merito – Analisi degli elementi concreti oggettivi e soggettivi – Necessità

In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta contestata al lavoratore nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti – di natura oggettiva e soggettiva – della fattispecie, mentre la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri a cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 cod. civ.

Licenziamento individuale – Giusta causa – Giudizio di proporzionalità – Lesione del vincolo fiduciario – Pregiudizio per gli scopi aziendali – Disvalore ambientale – Posizione ricoperta dal dipendente – Valutazione in concreto – Necessità

In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione di proporzionalità tra fatto contestato e recesso è necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia tale da scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la prosecuzione del rapporto possa costituire un pregiudizio per gli scopi aziendali. In particolare, il Giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore anche alla luce del disvalore ambientale che la stessa possa assumere quando – in virtù della posizione professionale rivestita dal lavoratore – possa assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto degli obblighi di diligenza e fedeltà.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, rigettava l'impugnazione proposta dal lavoratore avverso il proprio licenziamento per motivi disciplinari, ritenendo il recesso legittimo in considerazione della gravità dell'illecito penale a lui ascritto.Il lavoratore interponeva ricorso per Cassazione eccependo, inter alia, la violazione dell'art. 48 del CCNL telecomunicazioni, nonché degli artt. 1 e 3, L. 604/1966, per difetto di proporzionalità tra il licenziamento ed il fatto contestatogli.La Suprema Corte ritiene il motivo di ricorso infondato. Dopo aver precisato che il CCNL di settore prevede quale ragione di licenziamento disciplinare la condanna del lavoratore ad una pena detentiva per azioni commesse non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, la Corte chiarisce, in ogni caso, che – in tema di licenziamento disciplinare – la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva non è vincolante per il giudice, a cui è riservato il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta contestata. In tale valutazione, il giudice di merito dovrà tener conto degli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, che caratterizzano la fattispecie, mentre la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 cod. civ. (in senso conforme, Cass. 17321/2020). Questo principio di diritto era stato correttamente applicato dal giudice di merito, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore condannato per aver introdotto in Italia circa un chilo di cocaina, fatto altresì idoneo a dimostrare che questi fosse in contatto con ambienti malavitosi.Nel motivare la propria decisione, la Corte d'Appello aveva altresì evidenziato la rilevanza dell'elemento fiduciario che caratterizzava le mansioni del ricorrente, il quale svolgeva la propria attività lavorativa all'esterno dei locali aziendali e con ampi margini di autonomia visto anche il quotidiano relazionarsi con la clientela mediante accesso alle abitazioni private.Anche tale considerazione è conforme ai principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui ai fini della valutazione di proporzionalità tra fatto contestato e licenziamento è necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto dal lavoratore, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del dipendente che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (in senso conforme, Cass. 13411/2020). In particolare, ai fini della suddetta valutazione di proporzionalità, il giudice di merito deve esaminare la condotta del lavoratore, con riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del disvalore ambientale che essa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere a modello diseducativo per gli altri dipendenti, disincentivati dal rispetto di detti obblighi (Cass., 24619/2019). 

Concorso interno, criteri per la progressione economica

Cass. Sez. Lav., 29 luglio 2021, n. 21801

Pres. Raimondi; Rel. Spena; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.A.; Controric. A.E.

Concorso interno - Progressione economica - Criteri - Esperienza lavorativa - Lavoro part-time - Punteggio - Calcolo in proporzione – Lavoro part-time in prevalenza femminile - Discriminazione di genere indiretta - Configurabilità - Accertamento in concreto - Necessità

L'attribuzione di un punteggio proporzionato al regime orario (part time o tempo pieno) ai fini di una promozione può costituire una forma di discriminazione indiretta se, nella sua concreta applicazione, colpisce solo una categoria di dipendenti (quelle di sesso femminile).

NOTA

Una lavoratrice, con contratto di lavoro part time, partecipava ad una selezione promossa dalla propria azienda e finalizzata ad ottenere una progressione economica. All'interno del bando veniva valorizzata, ai fini della selezione, la "esperienza di servizio" dei dipendenti, con applicazione di una riparametrazione della stessa alla minore attività lavorativa svolta dai lavoratori in caso di part time.Esclusa dalla selezione, la lavoratrice adiva il Tribunale di Torino sostenendo di aver subito un trattamento discriminatorio di genere. Secondo la lavoratrice, infatti, la modalità di computo del punteggio per i part-time produceva uno svantaggio maggiore per i lavoratori di genere femminile, in quanto nella maggior parte dei casi i contratti part-time, cui si applicava appunto il riproporzionamento, erano ricoperti dal genere femminile.La Corte d'appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, respingeva la domanda proposta dalla lavoratrice. Secondo il collegio, infatti, l'applicazione della regola contenuta nel bando non svantaggiava maggiormente le donne, in quanto il riproporzionamento del punteggio si applicava a tutti i lavoratori part-time, indipendentemente dal genere. E, anzi, secondo la Corte seppur era vero che, nell'ambito del gruppo dei lavoratori part time presentatisi per la selezione, le donne escluse dalla progressione erano in numero maggiore degli uomini, ciò non era l'effetto, diretto o indiretto, del criterio di selezione contestato ma del fatto che all'interno del gruppo dei lavoratori part time le donne erano in percentuale di gran lunga maggiore (oltre l'80%).Avverso questa sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione nella parte in cui ha negato la esistenza di una discriminazione di genere.In particolare, secondo la lavoratrice, rientrano nella nozione di discriminazione indiretta - di cui al D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2 - i criteri di selezione dei lavoratori suscettibili di produrre un effetto sperequato in danno di un genere rispetto all'altro, nonostante la neutralità del criterio adottato. Sotto questo profilo, l'istituto del part time è collegato in misura preponderante al genere femminile, che se ne avvale quale modalità di lavoro più compatibile con le necessità familiari; pertanto la scelta di ridurre il punteggio per il lavoro part time, se incide astrattamente su entrambi i sessi, in realtà facilmente realizza una discriminazione indiretta di genere.Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte accoglie il ricorso della lavoratrice.Secondo il Collegio, infatti, il ragionamento svolto dalla Corte di merito per escludere la discriminazione di genere, valorizzando il fatto che a tutti i dipendenti part time fosse stato riservato un trattamento identico, indipendentemente dal genere, è pertinente alla discriminazione diretta ma non a quella indiretta.Nella fattispecie di causa, tuttavia, la lavoratrice denunciava una discriminazione indiretta – caratterizzata proprio dal carattere apparentemente neutro della disposizione censurata e dall'effetto di particolare svantaggio da essa prodotto per i titolari del fattore protetto – sicché la verifica non andava compiuta avendo riguardo al "trattamento" ma all'"effetto" discriminatorio.Ed anzi, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la S.C. ricorda che l'esistenza di una posizione di particolare svantaggio nella discriminazione indiretta di genere può essere dimostrata anche provando che una disposizione colpisce negativamente in proporzione significativamente maggiore le persone di un determinato sesso rispetto a quelle dell'altro sesso.Ebbene, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale ha utilizzato una metodologia di indagine sulle discriminazioni non corretta, in quanto, dopo avere erroneamente valorizzato il fatto che il criterio di selezione colpiva tutti i lavoratori part time, indipendentemente dal genere, ha verificato l'"effetto discriminatorio", con il criterio dei dati statistici ma all'interno della sola categoria dei dipendenti part-time, giungendo ad affermare che, tra i dipendenti part time, le donne non erano state svantaggiate rispetto agli uomini dal criterio di selezione. Al fine di verificare la esistenza di una discriminazione indiretta di genere, invece, il giudice, nel caso in cui disponga di dati statistici, deve in primo luogo prendere in considerazione l'insieme dei lavoratori assoggettati alla disposizione di cui si dubita; solo una volta individuato l'insieme di lavoratori, il Giudice dovrà procedere con il confrontare tra loro le proporzioni rispettive di lavoratori che sono e che non sono "colpiti" dall'asserita disparità di trattamento all'interno della manodopera di sesso maschile (rientrante nel campo di applicazione della disposizione) e le medesime proporzioni nell'ambito della mano d'opera femminile.Nella fattispecie di causa andava, quindi, in primo luogo individuato correttamente l'insieme dei lavoratori destinatari della disposizione. Secondo la S.C., sul punto, la Corte di merito ha già compiuto un primo errore in quanto ha erroneamente limitato l'indagine ai lavoratori di una Direzione Regionale, che avevano partecipato alla progressione economica, nonostante la procedura fosse stata avviata dalla direzione centrale e non risulta territorialmente limitata alla dimensione Regionale.Una volta individuati correttamente i destinatari della disposizione denunciata, il giudice del merito avrebbe dovuto procedere con il metodo comparativo, tenendo conto che i lavoratori "colpiti" dalla disposizione erano tutti i lavoratori part time, ai quali veniva ridotto il punteggio riconosciuto dal bando per ciascun anno di servizio, in proporzione alla riduzione della prestazione oraria.Per applicare correttamente il metodo di comparazione, il giudice avrebbe dovuto, dunque, individuare, nell'ambito dei destinatari della disposizione, come sopra fissato in quale percentuale dei lavoratori di sesso maschile vi erano soggetti colpiti (in quanto part time) o non colpiti (in quanto full time) dalla disposizione ed in quale percentuale delle lavoratrici di sesso femminile vi erano dipendenti colpite (part time) o non colpite (full time) dalla disposizione.All'esito del raffronto tra le rispettive percentuali, l'effetto discriminatorio sarebbe emerso se i dipendenti part time colpiti dal criterio di selezione fossero costituti in percentuale significativamente prevalente da donne.Ebbene, di fronte all'evidenza statistica della discriminazione di genere prodotta dall'applicazione di questa regola del bando, al datore di lavoro sarebbe spettato di provare la sussistenza di una causa di giustificazione alla discriminazione ovvero: che la disposizione adottata riguardava requisiti essenziali allo svolgimento della attività lavorativa; che essa rispondeva ad un obiettivo legittimo; che i mezzi impiegati per il suo conseguimento erano appropriati e necessari.A tale riguardo, secondo la S.C., l'esperienza di servizio costituisce sicuramente un requisito essenziale per il riconoscimento della progressione economica, in particolare alla luce della norma contrattual-collettiva applicabile in azienda. Il sistema di sviluppo economico è, infatti, correlato al diverso grado di abilità professionale progressivamente acquisito dai dipendenti nello svolgimento delle funzioni proprie dell'area e del profilo di appartenenza: tra i criteri oggettivi di valutazione per i passaggi alle fasce retributive successive a quella iniziale figura proprio l'esperienza professionale maturata.Dunque, l'obiettivo di apprezzare in misura puntale l'esperienza di servizio è, secondo la S.C., in sé legittimo. Occorre, tuttavia, rammentare, in relazione al giudizio di adeguatezza e necessità dei mezzi impiegati, che «l'affermazione secondo la quale sussiste un nesso particolare tra la durata di un'attività professionale e l'acquisizione di un certo livello di conoscenze o di esperienze non consente di elaborare criteri oggettivi ed estranei ad ogni discriminazione. Infatti, sebbene l'anzianità vada di pari passo con l'esperienza, l'obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto, segnatamente dalla relazione tra la natura della funzione esercitata e l'esperienza che l'esercizio di questa funzione apporta a un certo numero di ore di lavoro effettuate» (in termini: Corte di Giustizia, sent. 3 ottobre 2019 cit., punto 39).Il giudice del merito, nell'ipotesi di accertato "effetto discriminatorio", deve dunque valutare se nel contesto specifico degli impieghi interessati dalla disposizione ed, in particolare, delle mansioni svolte dalla parte ricorrente, esista o meno un nesso tra l'esperienza acquisita con l'esercizio della funzione ed il numero delle ore di lavoro svolte. Indagine e valutazione che, nel caso di specie, secondo la S.C., la Corte territoriale non ha effettuato.Sulla base dei principi ora descritti, la Suprema Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Torino in diversa composizione affinché effettui una nuova indagine sull'esistenza della denunciata discriminazione indiretta di genere, anche nell'esercizio dei suoi poteri istruttori, avvalendosi, in caso di utilizzo del criterio statistico, del metodo sopra indicato.

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