Contenzioso

Patto di non concorrenza: quando è valido?

di Valeria Zeppilli

Il patto di non concorrenza previsto e disciplinato dall'articolo 2125 del Codice civile, per essere valido, deve rispettare degli specifici presupposti, in ordine ai quali la Corte di cassazione (sezione lavoro, 25 agosto 2021, n. 23418) ha avuto cura di fornire delle specifiche puntualizzazioni.
Innanzitutto, i giudici hanno chiarito che non è indispensabile che il patto si limiti a contemplare le mansioni che il lavoratore ha espletato nel corso del rapporto cui si riferisce, ma è ben possibile che esso ricomprenda anche altre prestazioni lavorative che in qualche modo, tenendo conto dei diversi mercati e delle loro oggettive strutture, competano con le attività economiche che svolge il datore di lavoro. In altre parole, il patto può estendersi sino al punto di vietare lo svolgimento di qualsiasi mansione in mercati in cui convergono beni o servizi identici a quelli dell'impresa di appartenenza o che sono parimenti idonei a soddisfare le esigenze della medesima clientela.
Il patto di non concorrenza tuttavia, nonostante quanto appena detto, non può estendersi sino al punto di compromettere qualsivoglia potenzialità reddituale del lavoratore, comprimendo ogni esplicazione della sua concreta professionalità.
La Corte di cassazione ha poi fatto due importanti precisazioni in merito al corrispettivo da prevedersi con riferimento al patto in analisi.
Per prima cosa, il compenso previsto per l'astensione dalla concorrenza non deve essere né simbolico, né manifestamente iniquo, né sproporzionato, tenendo conto del sacrificio imposto al lavoratore e della riduzione delle sue capacità di guadagno e a prescindere sia dall'ipotetico valore di mercato del patto sia dall'utilità che lo stesso apporta al datore di lavoro.
Ciò posto, ed è questo il secondo chiarimento fornito in proposito dalla Corte di cassazione, l'importo stabilito quale corrispettivo per la non concorrenza può essere erogato al lavoratore anche nel corso del rapporto.
Nel caso specificamente sottoposto all'attenzione della Corte, il patto di non concorrenza prevedeva l'impegno del lavoratore a non svolgere in maniera diretta o indiretta attività o mansioni analoghe a quelle svolte con riferimento al rapporto cui il patto si riferiva, una volta che lo stesso si fosse risolto. La durata dell'impegno era stata stabilita in tre mesi e la sua estensione territoriale era stata limitata ad alcune regioni del nord e del centro Italia. Il corrispettivo del patto era stato stabilito in 10mila euro per ogni anno, tenendo conto del fatto che il posto di lavoro era specializzante e che, pertanto, una più lunga permanenza nello stesso poteva rendere più difficile una nuova collocazione sul mercato, ampliando il sacrificio rispetto a quello che si sarebbe potuto verificare in relazione a un rapporto di breve durata.
Per tutte tali ragioni, considerati i principi sopra richiamati, il patto di non concorrenza è stato quindi ritenuto valido.

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