Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Patto di non concorrenza e recesso durante il rapporto di lavoro
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento disciplinare e tempestività della contestazione
Qualificazione di rapporto di lavoro come subordinato
Comunicazioni obbligatorie per collaboratore che esercita una professione intellettuale


Patto di non concorrenza e recesso durante il rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav., ord. 1° settembre 2021, n. 23723

Pres. Balestrieri; Rel. Cinque; Ric. C.C.; Contr. A.I. S.p.A.Patto di non concorrenza – Clausola di recesso unilaterale del datore di lavoro – Nullità – Recesso in costanza di rapporto di lavoro – Irrilevanza

La clausola che consente al datore di lavoro di recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza è nulla per contrasto con norme imperative. A tal proposito, non rileva il fatto che il recesso sia intervenuto in costanza di rapporto di lavoro, poiché gli obblighi delle parti si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto.

NOTA

La Corte d'appello di Bologna, confermando la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, rigettava la domanda proposta dalla lavoratrice al fine di ottenere il pagamento del corrispettivo del patto di non concorrenza concluso al momento dell'assunzione. In particolare, i giudici di merito, seppure confermando la nullità della clausola che attribuisce al datore di lavoro la possibilità di recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza, sottolineavano che nella fattispecie il recesso era intervenuto ben sei anni prima della cessazione del rapporto di lavoro e che, di conseguenza, la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio meritevole di indennizzo.La dipendente proponeva ricorso per Cassazione eccependo l'erroneità della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto legittimo il recesso del datore di lavoro, in palese contrasto con i principi normativi imperativi ed i precedenti giurisprudenziali sul tema.La Suprema Corte accoglie il ricorso, richiamando il proprio orientamento ormai consolidatosi in vicende analoghe (Cass., 10536/2020, Cass. 10535/2020, Cass. 3/2018) e secondo cui la clausola che rimette all'arbitrio del datore di lavoro la possibilità di recedere unilateralmente da un patto di non concorrenza è nulla per contrasto con norme imperative. A tal proposito, non rileva il fatto che il fatto che il recesso sia intervenuto durante il rapporto di lavoro, poiché gli obblighi a carico delle parti si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto di non concorrenza, impedendo alla lavoratrice di progettare il proprio futuro lavorativo e comprimendo la sua libertà.Alla luce di ciò, la Corte di cassazione ritiene non condivisibile il ragionamento dei giudici di merito secondo cui la circostanza che il recesso dal patto di non concorrenza fosse avvenuto oltre sei anni prima della cessazione del rapporto di lavoro non concretizzasse alcuna compressione della libertà della lavoratrice di progettare il proprio futuro lavorativo.Pertanto, prosegue la Corte, premesso che l'obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore sorge dal momento della stipula del patto di non concorrenza, la successiva rinuncia al patto da parte del datore di lavoro deve essere considerata tamquam non esset perché con essa si eserciterebbe una clausola nulla tramite la quale quest'ultimo riteneva di potersi liberare da un patto facendone cessare ex post gli effetti, in realtà già operativi, in forza di una condizione risolutiva affidata alla mera discrezionalità di una sola parte contrattuale.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 5 agosto 2021, n. 22370

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; Ric. L.R.G.; Controric. M.I.C.A.C. S.p.A.

Licenziamento – Giusta causa – Mancata effettuazione da parte della promoter delle visite ai clienti indicate nei report aziendali – Sussiste

La condotta della dipendente che ha infedelmente compilato i report aziendali indicando visite ai clienti in realtà mai effettuate integra la falsa attestazione di attività lavorativa e dunque è connotata da quella gravità tale da pregiudicare l'affidamento del datore di lavoro sull'esatto adempimento delle prestazioni future da parte della dipendente.

NOTA

La Corte di appello di Firenze confermava la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato da una società nei confronti di una dipendente, con mansioni di promoter, che aveva infedelmente compilato per sette giorni i report aziendali, facendo credere di aver effettuato le visite ai clienti indicate nei report predisposti, in realtà non svoltesi, non avendo visitato 24 clienti sui 41 indicati, con l'intento «di precostituirsi l'apparenza di un adempimento di fatto inesistente, al fine di eludere il controllo datoriale sulla regolarità dell'adempimento medesimo, così da integrare la violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza idonea a ledere il vincolo fiduciario».Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva la dipendente davanti la Corte di Cassazione, sostenendo che non potesse essere configurabile un inadempimento degli obblighi contrattuali in quanto non era stato accertato nel corso dei precedenti giudizi che la dipendente avesse svolto, nei giorni oggetto di contestazione, attività estranea alle mansioni affidate e che non vi fosse un intento doloso nell'irregolare predisposizione dei report e, pertanto, la propria condotta non poteva ricondursi alle fattispecie di cui al codice disciplinare del CCNL applicato che prevedeva tra le cause di licenziamento «la dolosa scritturazione delle presenze o l'abuso di fiducia».La Corte di legittimità rigetta il ricorso della dipendente ritenendo che quest'ultima aveva posto in essere una condotta «preordinata a rappresentare un adempimento in realtà inesistente, volta, pertanto, dolosamente ad eludere il controllo datoriale e così connotata da una gravità tale da pregiudicare l'affidabilità del datore sull'esatto adempimento delle prestazioni future ed idonea a sostenere l'invocata giusta causa». 

Licenziamento disciplinare e tempestività della contestazione

Cass. Sez. Lav., 18 agosto 2021, n. 23068

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; Ric. G.F.; Controric. P.I. S.p.A.

Licenziamento – Contestazione disciplinare – Tempestività – Interpretazione elastica – Complessità delle indagini e complessità organizzativa della società – Legittimità

Il requisito dell'immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile, nei limiti della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto da parte del datore di lavoro, con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo.Giusta causa – Requisiti – Pregiudizio all'esatto adempimento delle future prestazioni – SussistenzaRicorre giusta causa di licenziamento allorquando la condotta posta in essere, valutata sotto il profilo oggettivo e soggettivo, può qualificarsi come intenzionale e denoti una certa dimestichezza del lavoratore a commettere azioni penalmente perseguibili che certamente non si confanno a posizioni di preposizione gerarchica e che sono tali da pregiudicare l'affidamento del datore di lavoro sull'esatto adempimento delle prestazioni future.

NOTA

La fattispecie oggetto dell'ordinanza in commento è inerente il licenziamento per giusta causa ex art. 2119 cod. civ. del ricorrente. In particolare, la società datrice di lavoro, venuta a conoscenza dei fatti in data 26 settembre 2016, in data 17 maggio 2017 (ovvero quasi otto mesi dopo) contestava al dipendente (i) di aver costretto con minacce alcuni colleghi di lavoro a ritrattare dichiarazioni rese in un precedente procedimento disciplinare e (ii) di non aver comunicato alla società medesima la propria situazione personale dei carichi pendenti e del casellario giudiziale. Per tali ragioni, dunque veniva poi comminato il licenziamento.La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Benevento, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa con riferimento all'addebito di aver costretto con minacce i colleghi a ritrattare le proprie dichiarazioni. Diversamente, con riguardo al secondo addebito relativo alla mancata comunicazione dei carichi pendenti e del casellario giudiziale, la Corte territoriale ha ritenuto fondata l'eccezione del dipendente di tardività della contestazione.Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, deducendo la non sussistenza della giusta causa di licenziamento e la tardività della contestazione anche con riferimento al primo addebito. La Suprema Corte ha ritenuto infondati entrambi i motivi. Con riferimento alla tardività della contestazione, la Corte ha ricordato il consolidato orientamento secondo cui il requisito dell'immediatezza vada «inteso in senso relativo», avendo riguardo cioè anche alla complessità delle indagini ed alle circostanze di fatto inerenti il datore di lavoro. La Corte ha quindi disatteso l'eccezione di tardività della contestazione disciplinare sollevata dal lavoratore in ragione della necessità di verificare i fatti, delle dimensioni e della complessità organizzativa del datore di lavoro, che hanno dunque giustificato un "ritardo" nell'azione disciplinare.Con riferimento all'ulteriore motivo di ricorso – con il quale il lavoratore aveva censurato la sentenza della Corte d'Appello per aver ritenuto idonee le minacce effettuate ai propri colleghi ai fini dell'integrazione della giusta causa– la Cassazione ha osservato che l'intenzionale comportamento del ricorrente aveva dimostrato la dimestichezza dello stesso con azioni penalmente perseguibili, incompatibili altresì con la posizione di supervisore rivestita dal lavoratore. La Suprema Corte, dunque, condividendo le conclusioni cui era già giunta la sentenza appellata, ha ritenuto la condotta del ricorrente, anche valutata alla luce del secondo addebito (mancata comunicazione dei carichi pendenti e del casellario giudiziale) seppur tardivamente contestato, idonea a ledere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Qualificazione di rapporto di lavoro come subordinato

Cass. Sez. Lav., 2 settembre 2021, n. 23816

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; Ric. B.D.; Controric. L.D.V. S.r.l.

Rivendicazione lavoro subordinato – Subordinazione – Nozione – Eterodirezione – Elemento decisivo – Altri elementi (orario, retribuzione, rischio) – Valore sussidiario – Funzione indiziaria

Elemento indefettibile del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l'osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l'inserimento della prestazione medesima nell'organizzazione aziendale e il coordinamento con l'attività imprenditoriale, l'assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall'assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l'apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull'atteggiarsi del rapporto

NOTA

La Corte d'Appello di Cagliari respingeva il gravame proposto da B.D. avverso la decisione del Tribunale di Sassari che aveva rigettato la sua domanda, intesa al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato con la L.D.V. S.r.l., con la qualifica di dirigente, ed alla condanna della società al pagamento delle differenze retributive.La Corte distrettuale rilevava che l'appellante svolgeva le mansioni di preposto, senza vincolo di subordinazione e con ampia libertà organizzativa, e che tale attività era perdurata sino al 2001, data di assunzione quale dirigente, e momento in cui B.D., peraltro, informava l'ente previdenziale della cessazione dell'attività autonoma prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro subordinato.Avverso tale decisione B.D. ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo che, dalle risultanze testimoniali, dovevano ritenersi sussistenti gli indici della subordinazione, in quanto doveva rispondere del suo operato al padre, amministratore della società, e che per la qualificazione subordinata del rapporto deponevano elementi a suo dire caratterizzanti lo svolgimento del rapporto quali la continuità delle prestazioni, l'osservanza di un orario predeterminato, il versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell'attività lavorativa con l'assetto organizzativo data dal datore di lavoro, l'assenza in capo al lavoratore di un sia pur minima struttura imprenditoriale.La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile.La Suprema Corte, richiamati nella sua decisione i principi indicati nella massima, ha evidenziato come la Corte di merito abbia accertato – con giudizio di fatto, «incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici» (Cass. 14160/2014, Cass. 9808/2011) – che le prestazioni lavorative dedotte in giudizio erano state rese con margini di autonomia e soprattutto senza ingerenze da parte di alcuno in sede di controllo della prestazione o disciplinare.La Suprema Corte ribadisce, poi, l'indirizzo generale in base al quale «la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Cass. 5231/2001, Cass. 7201/2004, Cass. 21412/2006) e richiama infine il principio secondo cui «qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l'onere della prova a carico dell'attore non sia stato assolto e non già propendere per la natura subordinata del rapporto» (cfr. Cass. 21028/2006).

Comunicazioni obbligatorie per collaboratore che esercita una professione intellettuale

Cass. Sez. Lav., 7 settembre 2021, n. 24082

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Giacalone; Ric. Omissis; Contr. Omissis.

Parasubordinazione – Collaborazione professionale – Attività intellettuale – Iscrizione ad un albo – Comunicazione instaurazione rapporto di lavoro – Obbligo – Insussistenza

Gli obblighi di comunicazione relativi all'instaurazione del rapporto di lavoro (iscrizione nel LUL e relative annotazioni, comunicazione di instaurazione del rapporto e consegna di una copia della stessa al lavoratore) non trovano applicazione a quei rapporti che, pur rientrando in via astratta nella nozione della c.d. parasubordinazione, non comportino un rischio effettivo di abuso ed elusione della normativa inderogabile in materia di lavoro, tutelati dalla normativa citata. Tra queste attività lavorative vanno ascritte quelle inerenti alle professioni intellettuali, il cui esercizio è condizionato ad una previa iscrizione ad appositi albi o elenchi ai sensi dell'art. 2229 cod. civ. e che si sostanziano in una prestazione intellettuale.

NOTA

La Corte d'Appello di Sassari confermava la sentenza resa dal Tribunale del medesimo luogo con cui era stata rigettata l'opposizione, interposta dal datore di lavoro, avverso l'ordinanza che lo aveva condannato al pagamento di una somma a titolo di sanzioni e spese per violazioni consistenti nella mancata comunicazione dei dati di una collaboratrice prima dell'inizio dell'attività lavorativa, nella mancata consegna alla stessa di una copia della dichiarazione o contratto o comunicazione di assunzione e, infine, nell'omessa registrazione dei dati della lavoratrice sul Libro Unico del Lavoro.In particolare, la Corte territoriale, per quel che rileva, aveva accertato lo svolgimento tra le parti di una prestazione professionale coordinata e continuativa in relazione alla quale riteneva sussistenti a carico del datore i predetti obblighi di comunicazione agli enti competenti. Avverso tale decisione la ditta ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.La Cassazione ritiene che le violazioni contestate alla ditta siano insussistenti.In particolare, richiamando la normativa di riferimento, la Suprema Corte osserva che – a differenza di quanto ritenuto dalla Corte territoriale – i suddetti obblighi di comunicazione non possono trovare applicazione a quei rapporti che, pur rientrando in via astratta nella nozione della c.d. parasubordinazione, non comportano un rischio effettivo di abuso ed elusione della normativa inderogabile in materia di lavoro, tutelati dalla normativa citata.Tra queste attività lavorative, che esulano, appunto, dall'ambito di applicazione degli obblighi di cui sopra, vanno ascritte quelle inerenti alle professioni intellettuali, il cui esercizio è condizionato ad una previa iscrizione ad appositi albi o elenchi ai sensi dell'art. 2229 cod. civ. e che si sostanziano in una prestazione intellettuale.Afferma la Suprema Corte che «l'iscrizione all'Albo professionale, oltre ad essere condizione per l'esercizio legittimo della professione intellettuale, assolve, infatti, unafunzione informativa sia per i terzi, che intendano avvalersi dell'opera professionale di uno degli iscritti, sia di ogni altro soggetto che abbia interesse a prendere conoscenza dei dati ivi contenuti. Tale funzione pubblicitaria consente, pertanto, ogni forma di controllo e di osservazione, da parte delle pubbliche autorità, in ogni settore ivi compreso quello dell'andamento del mercato del lavoro, attraverso il controllo incrociato dei dati in possesso dei vari Uffici (per es. Agenzia delle Entrate, Istituti e Casse di Previdenza, Ispettorati Territoriali del lavoro)».Ne consegue che, con riferimento al caso di specie, secondo la Cassazione le violazioni che si contestano alla ditta, riferibili ad un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, quale quello con la lavoratrice, iscritta ad un albo professionale ex art. 2229 cod. civ. e titolare di partita IVA, devono ritenersi insussistenti.Conclusivamente, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata in relazione ai motiviaccolti e, decidendo nel merito, accoglie l'originaria opposizione proposta dalla ditta annullando l'originaria ordinanza-ingiunzione emessa dall'Ispettorato Territoriale del Lavoro.

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