Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Riqualificazione del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato
Trasferimento di ramo d'azienda
Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore
Sospensione dell'indennità di vacanza contrattuale
I cd. controlli difensivi e i limiti di cui all'art 4 Stat. Lav.

Riqualificazione del rapporto di lavoro da autonomo a subordinato

Cass. Sez. Lav., 24 agosto 2021, n. 23329

Pres. Balestrieri; Rel. Boghetich; Ric. F.A.D.V.; Controric. C.C.

Riqualificazione rapporto di lavoro da autonomo a subordinato – Principio di irriducibilità della retribuzione – Applicazione – Esclusione – Fattispecie: contratto a progetto

Nel rapporto di lavoro che sia qualificato ab origine come autonomo e sia stato successivamente convertito ope iudicis in lavoro subordinato non opera il principio di irriducibilità della retribuzione, sancito dall'art. 2103 cod. civ.

NOTA

La Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Verona, accoglieva la domanda di pagamento di differenze retributive proposta dalla lavoratrice per il periodo gennaio 2011-ottobre 2013, epoca in cui quest'ultima aveva svolta attività lavorativa presso la datrice di lavoro in esecuzione di un contratto di somministrazione «percependo una retribuzione inferiore rispetto a quella corrisposta nel corso di pregressi contratti a progetto, convertiti in rapporto di lavoro a tempo determinato (sin dal 15.6.2000, data di stipulazione del primo contratto a tempo determinato, dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato)», sentenza con la quale la lavoratrice era stata reintegrata nel 2013 nel posto di lavoro con inquadramento nel I livello del CCNL Enti Lirici e riconoscimento di una retribuzione di euro 2.206,69 mensili.

La Corte territoriale rilevava che «la retribuzione eccedente i minimi contrattuali percepita dalla C. durante i contratti a progetto ossia gennaio 2005-31.12.2010 (pari a euro 4.200,00) si configurava quale superminimo assorbibile con i successivi aumenti salariali», e, che, pertanto, doveva ritenersi applicabile il principio di irriducibilità della retribuzione, con diritto della lavoratrice alla conservazione della retribuzione mensile lorda pari a euro 4.200,00, comprensiva del superminimo riassorbibile con decorrenza dall'1.1.2008.Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.

La Suprema Corte ritiene che non si applichi il principio della irriducibilità della retribuzione nel caso in cui «il compenso sia stato, come nella specie, pattuito dalle parti – in relazione ad un rapporto di lavoro, dalle medesime considerato autonomo – ancorché ne sia stata, poi, giudizialmente accertata la natura subordinata. In tal caso, infatti, non opera la ricordata eterodirezione, né sono previsti – almeno di regola – minimi tariffari inderogabili.

Il corrispettivo pattuito, quindi, s'intende destinato – per concorde volontà delle stesse parti – a compensare integralmente l'opera prestata».

La Suprema Corte rileva, infatti, che l'accertamento della diversa natura comporta il diritto della lavoratrice al trattamento economico corrispondente, ma non può, tuttavia, influenzare ex post l'originaria intenzione delle parti di destinare il correspettivo pattuito a compensare integralmente l'opera prestata.Su questo punto, la Suprema Corte si è uniformata al consolidato orientamento della stessa secondo cui «non può presumersi che le parti abbiano inteso imputare a paga base per lavoro subordinato un corrispettivo pattuito per una prestazione d'opera, contestualmente, qualificata autonoma. Tale principio, e – deve affermarsi in questa sede – la connessa garanzia della irriducibilità della retribuzione, può essere logicamente riferita al solo caso di un accordo sulla retribuzione concluso all'interno di un rapporto di lavoro legittimo, qualificato fin dall'inizio come subordinato; rispetto al quale non può concepirsi un controllo sull'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro rispetto alla concreta attuazione del medesimo rapporto di lavoro subordinato e all'evoluzione del trattamento economico».

La Suprema Corte ritiene, dunque, che, nell'ipotesi della conversione di un contratto di lavoro autonomo in un rapporto di lavoro subordinato «il giudice deve verificare il rispetto dei minimi retributivi previsti dal contratto collettivo rispetto alla categoria spettante, mentre non può applicare – ex post – principi vigenti per il diverso schema negoziale della subordinazione (come la presunzione che il compenso convenuto sia dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria, con esclusione del patto di conglobamento)».

Conclusivamente la Corte di Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso della datrice di lavoro, dichiarando assorbito il secondo motivo e rigettando il terzo, ed ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, cui ha demandato di provvedere anche sulle spese di giudizio di legittimità.

Trasferimento di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav., 14 settembre 2021, n. 24687

Pres. Raimondi; Rel. Pagetta; P.M. Celeste; Ric. V.I. S.p.A.; Controric. C. S.p.A. + R.D., A.F., M.C., B.A., V.D., M.A.

Trasferimento ramo d'azienda – Autonomia organizzativa e funzionale – Necessità – Integrazioni rilevanti da parte del cessionario – Ammissibilità – Esclusione

Ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 cod. civ., anche nel testo modificato dall'art. 32 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisce elemento costitutivo della cessione l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la sua capacità, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere, senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione finalizzati nell'ambito dell'impresa cedente. L'analisi non deve quindi basarsi sull'organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all'organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto.

NOTA

A seguito di un trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 cod. civ., alcuni lavoratori adivano l'autorità giudiziaria per l'accertamento della legittimità del passaggio avvenuto alle dipendenze della cessionaria. La Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la inefficacia, nei confronti dei ricorrenti, della cessione del rapporto di lavoro conseguente alla cessione del ramo di azienda e ordinava alla società cedente il ripristino dell'originario rapporto di lavoro.

In particolare, il giudice di appello, ritenendo che ai fini della configurabilità di una vicenda traslativa riconducibile all'art. 2112 cod. civ. (anche nella formulazione successiva alla modifica attuata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, applicabile ratione temporis) si necessita che l'oggetto della cessione sia un'articolazione autonoma, capace di perseguire con propri autonomi mezzi lo scopo economico prefissato, escludeva che tali caratteri connotassero il complesso oggetto del contratto di cessione tra le due società.

Secondo la Corte, infatti, i servizi ceduti - di back office consumer, back office corporate e gestione del credito - costituivano solo segmenti di attività rientranti nel più ampio contesto del customer care, vale a dire del reparto che nella cedente si occupava della gestione del cliente e richiedevano, pur dopo la cessione, una continua interazione con i dipendenti della società cedente, un'imprescindibile integrazione organizzativa ed una stretta interdipendenza funzionale del ramo trasferito con la struttura rimasta nell'impresa cedente. Inoltre, dal contratto di fornitura di servizi tra le due società stipulato nella stessa data del contratto di cessione emergeva che, a differenza di un normale contratto di appalto di servizi in cui l'appaltatore si obbliga alla fornitura di un determinato autonomo risultato, la cedente aveva riservato a sé il dettaglio di tutta l'organizzazione delle singole operazioni e la cessionaria si era obbligata a svolgere i servizi in conformità alle dettagliate direttive impartitele. Infine, le attività oggetto della cessione avevano continuato ad essere svolte dai medesimi dipendenti ceduti, non identificabili per un particolare know how, senza autonomia e in continuo collegamento direttivo, funzionale e di controllo da parte della cedente, in locali di cui tale società continuava ad essere la locataria, utilizzando gli indispensabili programmi.

Avverso questa decisione ricorrevano per Cassazione entrambe le società coinvolte nel trasferimento, deducendo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 cod. civ., per essere la sentenza impugnata frutto di un'interpretazione della norma codicistica non rispettosa dei principi fissati dalla Direttiva 2001/23/CE quali enucleati dalla Corte di Giustizia e formulando in via preliminare richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea ai sensi dell'art. 267 TFUE. Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte rigetta il ricorso.

In particolare, secondo la S.C., il giudice d'appello, in punto di diritto, ha deciso in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità ed ai principi della Direttiva, per come inverati dalle interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia.E, infatti, secondo un risalente e consolidato principio di legittimità, la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che oggettivamente si presenti quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni.

Detta nozione di trasferimento di ramo d'azienda, tracciata in via giurisprudenziale, peraltro è coerente con la disciplina in materia dell'Unione secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1, n. 1, Direttiva 2001/23).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo.D'altronde, secondo la S.C., anche con riguardo al testo modificato dal D.Lgs. n. 276/2003, art. 32, ai fini del trasferimento di ramo d'azienda previsto dall'art. 2112 cod. civ., deve individuarsi come elemento costitutivo della cessione «l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere - autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario - il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione». Sulla scia di questo principio, in molte sentenze, relative a casi similari a quello deciso con la sentenza in epigrafe, la S.C. ha escluso l'operatività dell'art. 2112 cod. civ., nella sua formulazione successiva al 2003, in caso di "mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo", sancendo altresì l'indipendenza "dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti" (analogamente v. poi Cass. n. 1316 del 2017 e Cass. n. 19034 del 2017, in ipotesi di cessione di un call center in cui i programmi informatici erano rimasti nella proprietà esclusiva della cedente).

Secondo la S.C., inoltre, il «fatto che la nuova disposizione abbia rimesso al cedente e al cessionario di identificare l'articolazione che ne costituisce l'oggetto non significa che sia consentito di rimettere ai contraenti la qualificazione della porzione dell'azienda ceduta come ramo, così facendo dipendere dall'autonomia privata l'applicazione della speciale disciplina in questione, ma che all'esito della possibile frammentazione di un processo produttivo prima unitario, debbano essere definiti i contenuti e l'insieme dei mezzi oggetto del negozio traslativo, che realizzino nel loro insieme un complesso dotato di autonomia organizzativa e funzionale apprezzabile da un punto di vista oggettivo».

Al fine di fornire un quadro completo per l'operatività dell'art. 2112 cod. civ., la S.C. evidenzia come, anche per consolidata giurisprudenza comunitaria, l'elemento costitutivo rappresentato dall'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto debba essere letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza di esso, «nel senso che il ramo ceduto deve avere la capacità di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell'ambito dell'impresa cedente anteriormente alla cessione», perché l'indagine non deve «basarsi sull'organizzazione assunta dal cessionario successivamente alla cessione, eventualmente grazie alle integrazioni determinate da coevi o successivi contratti di appalto, ma all'organizzazione consentita già dalla frazione del preesistente complesso produttivo costituita dal ramo ceduto».

A conforto di questo assunto e a conferma della necessità, anche dopo le modifiche introdotte del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32, della preesistenza del ramo al fine di sussumere la vicenda circolatoria nell'alveo dell'art. 2112 cod. civ. la S.C. richiama anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui l'impiego del termine "conservi" nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della Direttiva, «implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento»(Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, C458/12, Amatori ed altri, punto 34). Per ciò che riguarda, infine, le richieste di sospensione del procedimento e di rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ex art. 267, comma 3, del Trattato per il funzionamento della Unione Europea, proposte dalla difesa delle ricorrenti società in ordine a questioni interpretative aventi ad oggetto la norma comunitaria in materia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di parti di impresa, la Corte reputa che le stesse non siano pregiudiziali ai fini del decidere, stante la conformità del diritto interno al diritto dell'Unione.Pertanto, alla stregua di tutte le argomentazioni esposte, la Corte rigetta il ricorso. 

Sicurezza sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav., 21 settembre 2021, n. 25597

Pres. Tria; Rel. Ponterio; P.M. Fresa; Ric. E.E.; Controric. R. Soc. Coop. + 3

Infortunio sul lavoro – Obblighi dal datore – Mancata adozione delle misure di sicurezza o mancato controllo dell'osservanza – Responsabilità datoriale – Sussistenza – Negligenza, imperizia e imprudenza del dipendente – Irrilevanza

Gli obblighi di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tesi ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono diretti a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti ascrivibili a sua imperizia, negligenza e imprudenza. La dimensione dell'obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro comporta che questi sia tenuto a proteggere l'incolumità dei lavoratori e a prevenire anche i rischi insiti nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei medesimi nell'esecuzione della prestazione, dimostrando di aver posto in essere ogni precauzione a tal fine. Con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore, sia quando, pur avendo adottato le necessarie misure, non accerti e vigili affinché queste siano di fatto rispettate da parte del dipendente.

NOTA

Un lavoratore agiva in giudizio nei confronti della datrice di lavoro, appaltatrice, e della committente, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all'infortunio sul lavoro subito. Il Tribunale di Ravenna respingeva le domande, ritenendo l'infortunio attribuibile a colpa esclusiva del lavoratore. La Corte d'Appello di Bologna respingeva l'appello del lavoratore sul rilievo che non fosse dimostrata una «omessa vigilanza datoriale e/o della committente, non risultando, dalle prove precostituite e costituende complessivamente valutate, nessuna prassi contra legem tollerata, ma una unica condotta anomala posta in essere, inopinatamente, nell'occasione dell'infortunio, dal prestatore».

Secondo i giudici d'appello, non era stata specificamente contestata la documentazione prodotta dal datore di lavoro comprovante la formazione impartita al dipendente e la predisposizione delle procedure di sicurezza. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dell'articolo 2087 cod. civ. e del D.Lgs. 81/2008. Secondo il lavoratore le misure di sicurezza adottate, e in particolare la segnaletica orizzontale volta a delimitare la zona "a rischio residuo", non erano idonee ad impedire l'accesso del lavoratore nelle suddette aree; al contrario sarebbe stata esigibile l'installazione di una barriera fisica o di appositi dispositivi elettronici, in grado di ostacolare il passaggio del lavoratore anche per disattenzione o leggerezza o, in alternativa, una assidua vigilanza.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso rilevando che, secondo giurisprudenza ormai consolidata, in tema di responsabilità conseguente a infortunio sul lavoro, «le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore anche dagli incidenti ascrivibili a sua imperizia, negligenza ed imprudenza» con la conseguenza che «il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore, sia quando, pur avendo adottate le necessarie misure, non accerti e vigili affinché queste siano di fatto rispettate da parte del dipendente». La Corte di legittimità ha quindi concluso che la Corte di merito non ha fatto corretta applicazione dei principi appena richiamati laddove ha escluso ogni responsabilità datoriale sul presupposto di una condotta "anomala" del lavoratore, sebbene avesse accertato in fatto che questi si era infortunato, non per aver posto in essere una condotta arbitraria, dettata da finalità e motivi personali ed estranea allo svolgimento delle mansioni e alla direttive ricevute, bensì mentre eseguiva come di consueto la prestazione lavorativa.

Sospensione dell'indennità di vacanza contrattuale

Cass. Sez. Lav., 10 settembre 2021, n. 24483

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. C.C. S.p.A.; Controric. T.G. + 2

Contrattazione collettiva – Indennità di vacanza contrattuale – Corresponsione – Superamento della crisi di mercato – Condizione meramente potestativa – Esclusivo – Condizione sospensiva – Sussistenza – Conseguenza – Legittimità

La condizione non può considerarsi meramente potestativa quando l'evento dedotto in condizione sia collegato a valutazioni di interesse e si presenti come alternativa capace di soddisfare anche l'interesse proprio del contraente, soprattutto se la decisione sia affidata al concorso di fattori estrinseci, pur se la relativa valutazione sia rimessa all'esclusivo apprezzamento dell'interessato.

NOTA

La Corte di Appello di Napoli, in riforma del provvedimento reso dal primo giudice, condannava la Società alla corresponsione dell'indennità di vacanza contrattuale in favore dei lavoratori e la cui attribuzione era stata illegittimamente sospesa con un accordo sindacale di livello aziendale.

Secondo la Corte distrettuale, l'intesa sindacale era da considerarsi illegittima in quanto la Società avrebbe, di fatto, condizionato la corresponsione del predetto emolumento al superamento della crisi economico-finanziaria del settore e, conseguentemente, rimesso alla sola valutazione datoriale il momento temporale a seguito del quale riconoscere l'indennità (riproponendo, in sostanza, una condizione meramente potestativa, come tale nulla ai sensi dell'art. 1365 cod. civ.).

Avverso la predetta statuizione ha promosso ricorso in cassazione la Società assumendo, in sintesi, l'erronea interpretazione dell'accordo aziendale e l'erronea sussunzione della clausola in esame nell'alveo delle condizioni meramente potestative.In accoglimento del ricorso spiegato dall'azienda, i giudici di legittimità hanno ribaltato l'impianto argomentativo seguito dalla Corte d'Appello evidenziando la natura genuina della previsione contrattuale, in quanto condizionata al verificarsi ad un evento oggettivo ed esterno (crisi economico-finanziaria e suo superamento) la cui verificazione non poteva certo dipendere da manifestazioni arbitrarie del datore di lavoro. Nello specifico, la Corte ha ribadito come la condizione non può ritenersi meramente potestativa quando l'evento dedotto sia connesso a «fattori estrinseci» mentre, al contrario, vi rientra (e quindi è nulla) laddove la sua verificazione venga a dipendere dal «mero arbitrio della parte, svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza». 

I cd. controlli difensivi e i limiti di cui all'art 4 Stat. Lav.

Cass. Sez. Lav. 22 settembre 2021, n. 25732

Pres. Raimondi; Rel. Raimondi; P.M. Celeste; Ric. C.P.; Controric. F.A.N.D.S.C.;

Lavoro subordinato – Controlli a distanza – Nuovo art. 4 Stat. Lav. – Sopravvivenza dei cd. controlli difensivi – Distinzione tra controlli difensivi in senso lato (verso tutti i dipendenti) e in senso stretto (verso il singolo dipendente sospettato di aver commesso un illecito) – Rilevanza – Controllo difensivo in senso stretto – Art. 4 Stat.Lav. – Applicazione – Esclusione – Limiti – Controllo mirato ed ex post – Raccolta dei dati solo dopo il fondato sospetto dell'illecito – Necessità

In tema di controlli a distanza, anche dopo le modifiche dell'art. 4 Stat. Lav., è necessario distinguere tra i controlli che vengono svolti a difesa del patrimonio aziendale e che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di essi), e i controlli relativi a singoli lavoratori verso i quali sussiste il fondato sospetto della commissione di un illecito. La prima tipologia di controlli rientra pienamente nel campo di applicazione dell'articolo 4 dello Statuto e, come tale, è soggetta alle regole e alle procedure previste da tale norma, a pena di illegittimità dei controlli medesimi. La seconda tipologia di controlli, invece, deve ritenersi estranea al perimetro applicativo del novellato articolo 4, in quanto scaturisce dalla necessità di accertare e sanzionare gravi illeciti di un singolo lavoratore. Ne consegue che, se un datore di lavoro abbia il fondato sospetto che un dipendente abbia commesso un illecito, può effettuare un controllo a distanza in senso stretto utilizzando strumenti tecnologici senza seguire le rigide procedure previste dallo Statuto dei lavoratori, purché sia mirato, nonché attuato ex post, ossia effettuato a seguito del fondato sospetto del datore. Con specifico riferimento ai dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà, dunque, parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l'insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, e non in relazione a quelli già registrati.

NOTA

Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione si occupa del rapporto tra art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e i cd. controlli difensivi.Nel caso di specie una dipendente era stata licenziata per giusta causa in quanto, a seguito della diffusione di un virus nel sistema aziendale, l'amministratore di sistema dello stesso aveva effettuato un accesso al computer della lavoratrice e dallo stesso era risultato che sul suo disco fisso era presente un file scaricato dal quale si era propagato il suddetto virus.

Alla lavoratrice venivano dunque contestati il danno al patrimonio aziendale, l'uso a fini privati degli strumenti e l'interruzione dell'attività lavorativa (in considerazione dei rilevanti tempi di navigazione e attività per fini privati riscontrati nella cronologia). Investiti della questione, tanto il Tribunale quanto la Corte d'Appello di Roma ritenevano, per quanto di interesse, che i controlli effettuati dalla società non fossero in contrasto con l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori in quanto volti a verificare l'origine del virus che aveva infettato il sistema aziendale e non al controllo della prestazione della lavoratrice. Peraltro la Corte d'Appello riteneva proporzionata la sanzione espulsiva adottata.

Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice sulla base di vari motivi. In particolare sostenendo che la datrice di lavoro, in assenza di un'adeguata informativa sulle modalità di effettuazione dei controlli, non avrebbe potuto utilizzare a fini disciplinari i dati relativi alla cronologia del suo computer raccolti nell'ambito delle ricerche relative al virus informatico.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato la decisione impugnata.In primo luogo la Suprema Corte ha effettuato un lungo excursus relativo alla categoria dei cd controlli difensivi, evidenziando come gli stessi fossero stati introdotti dalla giurisprudenza nella vigenza della vecchia versione dell'art. 4 Stat. Lav. (precedente alla nota novella del 2015) quali controlli che non richiedono il rispetto delle garanzie di cui a tale norma in quanto finalizzati ad accertare comportamenti illeciti del dipendente nonché lesivi del patrimonio aziendale, soprattutto se disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento addebitato. La giurisprudenza individuava due presupposti necessari di sussistenza dei controlli difensivi (accertamento di un illecito e tutela del patrimonio aziendale) e uno eventuale (svolgimento ex post). La Cassazione ha poi proseguito riportando come dottrina e giurisprudenza si fossero a lungo chieste se la categoria dei cd. controlli difensivi fosse sopravvissuta all'esito della novella del 2015. Nello specifico – ha evidenziato la Corte – ci si era chiesti se i controlli difensivi non fossero stati attratti nell'area di competenza dell'art. 4 (e quindi delle relative regole) dal fatto che il legislatore aveva previsto tra le esigenze da soddisfare mediante i dispositivi potenzialmente fonte di controllo anche quelle di tutela del patrimonio (che rappresentavano, come visto, uno dei requisiti necessari dei controlli difensivi secondo la giurisprudenza consolidatasi sino a quel momento). La risposta a questo quesito è data dalla Suprema Corte ricorrendo alla distinzione tra controlli difensivi in senso lato, intesi come quelli a tutela del patrimonio e che riguardano tutti i dipendenti o gruppi di essi, e controlli difensivi in senso stretto, intesi come quelli tesi ad accertare condotte illecite ascrivibili – sulla base di indizi concreti – a singoli dipendenti, anche se verificatesi nel corso della prestazione lavorativa. Mentre, secondo la Cassazione, il primo tipo di controlli rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 4, il secondo gruppo ne è escluso anche se i controlli sono svolti con strumenti tecnologici.

La Corte ha però aggiunto che ciò non vuol dire che tale secondo tipo di controlli non abbia limiti, dovendosi riaffermare il principio espresso dalla giurisprudenza nella vigenza della precedente formulazione dell'art. 4, secondo cui non è ammissibile un totale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità del lavoratore; inoltre il controllo per essere legittimo deve essere attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito del lavoratore di cui il datore abbia fondato sospetto. La Cassazione ha poi, infine, chiarito - con rilevo fondamentale per la fattispecie che ci occupa - cosa debba intendersi per controllo ex post: non la mera attività di lettura o analisi di dati acquisiti in precedenza all'illecito in violazione delle normative rilevanti (privacy e art. 4) ma un'attività di raccolta delle informazioni iniziata dopo l'illecito. Diversamente argomentando - infatti - l'area di controllo difensivo si estenderebbe a dismisura.A chiusura del suo ragionamento giuridico sulla categoria dei cd. controlli difensivi la Cassazione ha affermato che nel caso di specie la decisione della Corte d'Appello fosse da ritenersi errata poiché, se è vero che l'attività di verifica era sta svolta successivamente all'insorgere del sospetto di illecito, non vi era stato alcun accertamento sul fatto che la raccolta delle informazioni rilevanti fosse ascrivibile al periodo precedente o a quello successivo allo stesso. Per approfondimenti in tema si veda Guida al Lavoro n. 40/2021

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