Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e danno differenziale
Infortunio sul lavoro e delega dei compiti di sicurezza
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa

Infortunio sul lavoro e danno differenziale

Cass. Sez. Lav., 9 settembre 2021, n. 24401

Pres. Balestrieri; Rel. Garri; Ric. I.F.F.; Contr. L.T.

Infortunio sul lavoro – INAIL – Indennizzo – Inadempimento del datore – Evento lesivo – Responsabilità civile – Danni complementari – Danno differenziale – Accertamento – Condizioni soggettive e oggettive – Liquidazione – Principi e regole

In tema di infortunio sul lavoro, le somme eventualmente versate dall'INAIL a titolo di indennizzo non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il giudice adito - una volta accertato l'inadempimento - dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dalla legge, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio all'individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (c.d. "danni complementari"), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile.

NOTA

La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha parzialmente accolto le domande avanzate dal lavoratore nei confronti della ditta - di cui era stato dipendente a tempo determinato - e l'ha condannata al pagamento di una somma a titolo di danno differenziale conseguente all'infortunio sul lavoro subìto dal lavoratore, di importo maggiore rispetto a quella liquidata dal giudice di prime cure.Avverso tale decisione la ditta ha proposto ricorso in Cassazione censurando la decisione sotto svariati profili e, in particolare, sostenendo che non sarebbe stata dimostrata dal lavoratore l'esistenza di patimenti che avrebbero giustificato il riconoscimento, da parte della Corte territoriale, del danno differenziale. Per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte romana in quanto coerente con i criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto in tema di infortunio sul lavoro e danno risarcibile.La Cassazione, infatti, chiarisce che le somme eventualmente versate dall'INAIL al lavoratore a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 per l'infortunio subìto sul lavoro, non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato. «Conseguentemente - ritiene la Suprema Corte - a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa, il giudice adito, una volta accertato l'inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all'evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal D.P.R. n. 1124 del 1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio all'individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. "danni complementari"), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile».La Cassazione aggiunge, inoltre, che, qualora siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, il giudice potrà pervenire alla determinazione dell'eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall'INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale. A tale ultimo accertamento procederà pure laddove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, ed anche se l'Istituto non abbia in concreto provveduto all'indennizzo stesso.Con riferimento al caso di specie, la Cassazione ritiene, dunque, che la Corte territoriale abbia fatto corretta applicazione dei principi sopra indicati e che non sia incorsa in alcuna violazione delle regole dettate in ordine alla distribuzione degli oneri probatori, atteso che il lavoratore aveva puntualmente allegato i fatti di causa, poi accertati nel corso del giudizio per il tramite di accertamento peritale disposto d'ufficio. Conclusivamente il ricorso della ditta viene respinto.

Infortunio sul lavoro e delega dei compiti di sicurezza

Cass. Sez. III 21 settembre 2021 n. 25512

Pres. Travaglino; Rel. Gorgoni; P.M. Nardecchia; Ric. E. S.r.l.; Controric. INAIL

Infortunio sul lavoro – Delega – Esonero responsabilità civile datoriale – Esclusione – Distinzione tra delega esecutiva e funzionale – Rilevanza

Occorre distinguere l'ipotesi in cui la delega sia esecutiva da quella in cui sia funzionale, esclusiva. Nel primo caso, la responsabilità del datore di lavoro per eventuali infortuni per comportamenti dolosi o colposi permane ed è diretta, in applicazione dell'art. 2087 c.c., perché il datore non si spoglia del suo potere di sorveglianza. Nel secondo, il datore ne risponde ugualmente in solido col delegato, a titolo di responsabilità oggettiva, a norma dell'art. 1228 cod. civ., per fatti dolosi o colposi compiuti dal preposto nell'adempimento dell'obbligazione di sicurezza.

NOTA

La Corte d'Appello di Genova respingeva il gravame proposto da E S.r.l. volto ad ottenere la sua assoluzione per asserita estraneità rispetto all'infortunio mortale sul lavoro del dipendente, infortunio per il quale in sede penale era stato condannato come responsabile solo colui al quale il datore di lavoro aveva delegato i compiti inerenti la sicurezza sul lavoro.La Corte territoriale aveva, infatti, ritenuto correttamente applicato dal giudice di prime cure l'art. 10 del D.P.R. n. 1164/1965 a mente del quale permane la responsabilità civile del datore di lavoro quando la sentenza penale stabilisca che l'infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto di essi debba rispondere secondo il codice civile, come ritenuto nel caso di specie.Avverso tale decisione E S.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo, inter alia, che l'individuazione del soggetto obbligato dalle norme prevenzionistiche non doveva avvenire sulla scorta della qualifica rivestita, bensì tenendo conto delle funzioni in concreto esercitate (c.d. principio di effettività). In particolare, secondo la ricorrente, la Corte d'Appello, che aveva ravvisato una responsabilità oggettiva a carico di E s.r.l., non aveva tenuto conto che preposto alla sicurezza del cantiere nel quale era accaduto l'infortunio mortale era un soggetto diverso dal datore di lavoro, e ciò in virtù di apposita delega, indicativa della volontà di attribuire al delegato la responsabilità di adottare un piano prevenzionistico e di trasferire in capo allo stesso i relativi obblighi. Per tale motivo, secondo la ricorrente, il datore di lavoro delegante doveva ritenersi esente da responsabilità, anche considerando che il delegato era stato condannato in sede penale, mentre il legale rappresentante della società datrice era stato assolto.La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato.Innanzitutto la Suprema Corte evidenzia che il principio di effettività non comporta affatto l'esonero da responsabilità del datore di lavoro e che «la individuazione del soggetto effettivamente tenuto ad assolvere gli obblighi prevenzionali è il presupposto per l'accertamento della responsabilità datoriale nella giurisprudenza penale, ma la titolarità degli obblighi penalmente rilevanti, in ragione dell'attribuzione di compiti specificamente assegnati al responsabile ed agli addetti ai servizi di prevenzione e protezione, non incide sulla responsabilità per inadempimento dell'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro né sulla eventuale responsabilità di quest'ultimo ai sensi dell'art. 2049 cod. civ.»La Corte di Cassazione ricorda, infatti, che la delega di funzioni, pur se operante sul versante della responsabilità penale, non è opponibile al lavoratore, data la natura inderogabile dell'art. 2087 cod. civ. che pone a carico del datore di lavoro il c.d. obbligo di sicurezza e la relativa responsabilità in caso di suo inadempimento. Di conseguenza, ribadisce la Corte di Cassazione, il datore di lavoro «non può invocare come fatto liberatorio l'aver delegato terzi l'adempimento dell'obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, permanendo a suo carico, a norma dell'art. 1228 cod. civ., la responsabilità civile per i fatti dolosi o colposi di costoro» (Cass. 11.04.2005 n. 7360; Cass. 14.05.2019 n. 12573).In altri termini - precisa la Corte di Cassazione - sul versante civilistico, la delega conferita al preposto «non ha efficacia traslativa del debito prevenzionistico e delle relative responsabilità» nei confronti del prestatore di lavoro.La Suprema Corte evidenzia, in particolare, che il datore di lavoro non è esente da responsabilità neppure in caso di delega funzionale a tutti gli effetti, quindi con successione del delegato nella sua posizione nell'adempimento dell'obbligo di sicurezza. In questo caso, precisa la Corte di Cassazione, il datore di lavoro risponde «non già per inadempimento dell'obbligo primario di sicurezza, cioè per fatto proprio, ma per il rapporto di preposizione, cioè un elemento oggettivo, insieme con il fatto dannoso ingiusto, considerando che egli è chiamato a rendere conto dell'attività del preposto nel quadro dell'organizzazione e delle finalità dell'impresa prescindendosi dalla sua colpa, in quanto la responsabilità è imputata a titolo oggettivo, avendo come suo presupposto la consapevole accettazione dei rischi insiti in quella particolare scelta imprenditoriale».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. I, 10 settembre 2021, n. 24510

Pres. Cristiano; Rel. Amatore; Ric. A.D.; Controric. F.R. S.r.l.

Licenziamento – Giustificato motivo oggettivo – Malattia – Intimazione – Invalidità – Esclusione – Inefficacia – Sussistenza

Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso quando si tratti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che, tuttavia, ove intimato, non è invalido ma solo inefficace e produce i suoi effetti dal momento della cessazione della malattia.

NOTA

Un ex dipendente presentava davanti al Tribunale di Venezia istanza di ammissione al passivo del fallimento della società ex datrice di lavoro e domandava che venisse altresì riconosciuta l'illegittimità del licenziamento poiché irrogato durante il suo stato di malattia. Il giudice delegato ammetteva l'ex dipendente al passivo fallimentare limitatamente a determinati crediti e l'ex dipendente proponeva quindi opposizione. Il Tribunale di Venezia accoglieva parzialmente l'opposizione dell'ex dipendente in merito ad alcuni crediti, ma rigettava la domanda relativa al licenziamento poiché, in quanto «intimato nel corso di un periodo di malattia, doveva ritenersi decorrente dalla cessazione di tale periodo e risultava pienamente legittimo, siccome giustificato dalla crisi aziendale».Avverso tale sentenza ricorreva l'ex dipendente davanti la Corte di Cassazione «per aver il tribunale escluso la nullità del licenziamento intimatogli durante il periodo di malattia, ritenendolo erroneamente decorrente a partire dalla cessazione di tale periodo».La Corte di legittimità rigetta il ricorso e decide come da massima sopra riportata.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav., 22 settembre 2021, n. 25731

Pres. Raimondi; Rel. Raimondi; Ric. F. S.p.A.; Controric. D.M.

Licenziamento per giusta causa – Chat aziendale – Strumento di lavoro – Raccolta di informazioni e utilizzo ai fini disciplinari – Informativa ex art. 4, comma 3 Stat. lav. - Necessità

Il datore di lavoro non può utilizzare, ai fini disciplinari, la conversazione di un dipendente che nella chat aziendale parla male dei superiori e dei colleghi, se non ha informato preventivamente il dipendente ai sensi dell'articolo 4, c. 3 L. n. 300/1970 della verifica sul pc aziendale.

NOTA

La fattispecie al vaglio della Suprema Corte attiene al licenziamento per giusta causa comminato dalla società ricorrente ad una dipendente, a seguito del ritrovamento sulla chat aziendale, in occasione di un controllo effettuato dal personale IT al fine di verificare - in ragione della chiusura della chat e del conseguente progressivo suo abbandono - se vi fossero dati aziendali da conservare, di una conversazione tra la resistente e un'altra collega, avente contenuto pesantemente offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega.All'esito del procedimento ex L. n. 92/2012, il Tribunale prima e la Corte d'Appello poi accertavano l'illegittimità del licenziamento della dipendente. Avverso tale decisione proponeva ricorso la società datrice di lavoro.La Suprema Corte, riprende innanzitutto la decisione della Corte d'Appello di Milano, richiamandone le principali motivazioni. In particolare, la Corte territoriale di Milano aveva osservato che l'accesso alla chat effettuato dalla società, seppur consentito ai sensi del regolamento aziendale in occasione di interventi di manutenzione, aggiornamento o per ricavare dati utili per la programmazione dei costi, tuttavia era in violazione dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970, poiché la società datrice di lavoro aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendenti e la comunicazione della interruzione del servizio di chat era stata inviata quando i controlli erano stati già eseguiti. L'art. 4 citato, infatti, al comma 3 prescrive la necessità di informare i dipendenti sulle modalità d'uso e di controllo degli strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori installati per esigenze organizzative e produttive per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale (comma 1) o assegnati per svolgere la prestazione lavorativa (comma 2), affinché i dati raccolti siano utilizzati a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, anche disciplinari. In aggiunta, la Corte d'Appello sottolineava che l'inutilizzabilità del materiale raccolto dalla datrice di lavoro era confermata altresì dal fatto che le conversazioni litigiose costituivano una forma di corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dell'art. 15 della Costituzione, in quanto alla chat era possibile accedere solo con l'uso di una password e i messaggi inviati potevano essere letti solo dai destinatari, con la conseguenza che l'accesso al contenuto delle comunicazioni è precluso agli estranei non ne è consentita la rivelazione ed utilizzazione. La Corte territoriale, infine, aveva escluso altresì un intento denigratorio, ritenendo che, anche nell'ipotesi di utilizzabilità delle informazioni raccolte, il contenuto dei messaggi costituisse uno sfogo della mittente, destinato ad essere letto dalla sola destinataria, privo del carattere di illiceità ed espressione della libera manifestazione del pensiero in una conversazione privata.La Corte di Cassazione, dunque, conferma le osservazioni della Corte territoriale.Nello specifico, con riferimento applicazione dell'art. 4, comma 3 L. 300/1970, osserva che la chat aziendale oggetto di controlli è certamente da qualificare come strumento di lavoro ai sensi del comma 2 del citato articolo 4 e correttamente l'inutilizzabilità dei dati raccolti è stata fatta derivare dalla mancata preventiva informazione dei dipendenti in merito alla modalità di verifica dello stesso strumento. Infatti, a nulla rileva che il controllo effettuato dalla società non sia stato fatto al fine di verificare l'attività l'lavorativa della dipendente né che la condotta contestata non esulasse dalla prestazione lavorativa.Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte rigetta il ricorso.

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