Contrattazione

Per gli accordi decentrati la partenza è in salita

di Angelo Zambelli

Nel ridisegnare la «disciplina organica dei contratti di lavoro» il Jobs Act ha infuso nuova linfa alla contrattazione decentrata attraverso l’articolo 51 del decreto legislativo 81/2015, che ha accolto un principio di generale di parificazione tra «contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali», purché stipulati «dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» o dalle rappresentanze sindacali costituite nel loro ambito.

Alla contrattazione decentrata, quindi, è oggi demandato il compito di adattare alle specifiche esigenze emerse a livello locale o di singola azienda, numerosi aspetti della disciplina dei contratti atipici e flessibili dettata dal legislatore a livello nazionale.

Il ruolo normativo attribuito dal Jobs Act ai contratti decentrati ha ricevuto un impulso notevole, eppure non è una novità assoluta. L’ordinamento vede infatti la coesistenza di altri due strumenti attraverso i quali i contratti decentrati possono derogare alla legge e/o ai contratti collettivi di livello nazionale.

Il primo strumento nasce già nell’ambito dell’ordinamento intersindacale con il protocollo del 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali e, passando per il Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, trova oggi compiuta regolamentazione negli accordi interconfederali del 28 giugno 2011 (Confindustria) e 26 novembre 2015 (Confcommercio).

Nel sistema così delineato il potere normativo della contrattazione decentrata si esercita nei limiti delle materie delegate dai Ccnl, e con le procedure previste dagli stessi.

Vere e proprie deroghe al Ccnl sono invece ammesse solamente in via sperimentale (cioè temporanea), con riferimento a singoli istituti (quali la prestazione lavorativa, l’orario di lavoro e l’organizzazione del lavoro), al fine di gestire situazioni di crisi o a fronte di significativi investimenti da parte datoriale.

Parallelamente, nel 2011, l’apice della crisi finanziaria ha fatto da sfondo all’introduzione dei cosiddetti “contratti di prossimità”, ossia l’intervento legislativo più dirompente mai effettuato in Italia in una materia, quale quella della contrattazione collettiva, da sempre contraddistinta dalla mancanza di regolamentazione organica.

Attraverso i contratti di prossimità introdotti dall’articolo 8 della legge 148/2011, le parti sociali possono financo derogare a norme imperative di legge e alle regolamentazioni dei Ccnl.

La deroga deve essere finalizzata alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività, e deve avere ad oggetto materie specifiche quali le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del personale, i contratti a termine e quelli a orario ridotto, la disciplina dell’orario di lavoro, le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro.

Se quindi la deroga «secondo le parti sociali» è uno strumento posto sotto il loro rigido controllo, perché limitato nell’oggetto e nelle finalità dal Ccnl di categoria, portata ben più rilevante possono avere le deroghe ai sensi del contratto di prossimità o dell’articolo 51 del Jobs Act.

E tuttavia i contratti di prossimità sono tutt’ora poco utilizzati perché si scontrano con le resistenze di parte sindacale, refrattaria ad abbandonare il ruolo centrale del Ccnl e ad esprimersi al di fuori delle procedure cristallizzate negli accordi interconfederali.

Non stupisce, quindi, che la contrattazione decentrata stenti a decollare, e che risultati tangibili si vedano solamente ove il sostegno del legislatore si fa più pregnante (come in materia di premi di risultato o di welfare aziendale) e il relativo godimento di concreti benefici economici è condizionato al raggiungimento di specifiche intese sindacali aziendali. Al contrario, la nuova disciplina delle mansioni appare paradigmatica di un certo atteggiamento di ritrosia delle parti sociali nei confronti del cambiamento. E infatti la stragrande maggioranza dei contratti collettivi rinnovati a seguito dell’entrata in vigore del nuovo articolo 2103 del Codice civile non ha colto l’opportunità di esercitare il potere di specificazione del dettato normativo attribuitole dal legislatore relativamente all’inquadramento dei lavoratori nei vari livelli e categorie legali, oggigiorno il nuovo parametro di riferimento della legittimità dello ius variandi del datore di lavoro. Nei pochi casi, poi, in cui un intervento vi è stato, si è trattato di un intervento dal sapore retrò, come nel caso del Ccnl Cemento che ha introdotto, in caso di mutamento di mansioni a un livello inferiore, l’onere procedurale di «svolgere un incontro in via preventiva a livello aziendale o/e di unità produttiva per valutare le possibili implicazioni» dello svolgimento delle nuove mansioni (articolo 31); o del contratto del gruppo Fca, che ha reintrodotto «il principio giurisprudenziale della compatibilità professionale» (articolo 6) espressamente abrogato dal legislatore.

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