Contrattazione

Con i Ccnl niente deroghe a causali di proroghe e rinnovi

di Aldo Bottini

Uno dei primi accordi sindacali nazionali, successivo al decreto dignità, si misura nel concreto con le possibilità di deroga alla normativa sul contratto a termine. Si tratta del “Protocollo accordo per la regolamentazione del lavoro a tempo determinato e del lavoro autonomo nel settore del cinema e dell’audiovisivo”, sottoscritto il 31 luglio 2018 da Anica e Apt da un lato e dalle federazioni di settore Cgil, Cisl e Uil dall’altro.

Le parti muovono dal presupposto che il settore è caratterizzato da variabilità e periodicità della produzione, e che in tale contesto i contratti a termine rispondono, in specifiche circostanze, tanto alle esigenze dei datori di lavoro quanto a quelle dei lavoratori. Un’affermazione interessante, in epoca di demonizzazione tout court dei contratti a termine.

In relazione a ciò, viene prevista una deroga al limite quantitativo del 20% dell’organico stabile previsto dalla legge, in virtù della quale, ricorrendo determinate condizioni, si potrà far ricorso ai contratti a termine senza alcun limite quantitativo. Si tratta di una deroga tuttora possibile, non essendo stato modificato sul punto il Dlgs 81/2015. Le condizioni per andare oltre il limite sono tipicamente disegnate sulle specificità del settore: le aziende per beneficiarne devono essere «organizzate su specifici segmenti produttivi», le prestazioni lavorative richieste devono essere caratterizzate da temporaneità e specificità, debbono sussistere «ragioni obiettive legate a specifiche e singole esigenze produttive».

In sostanza, una sorta di causale contrattual-collettiva che consente di andare oltre il limite quantitativo. Fin qui nessun problema, la contrattazione si muove nel solco della legislazione preesistente, non modificata sul punto dalle nuove disposizioni. Peraltro, la produzione di specifiche opere audiovisive era già esentata per legge dal limite quantitativo. Una precisazione a verbale in calce all’accordo prevede poi che la deroga (si suppone ricorrendo le stesse condizioni soggettive e oggettive) «è da intendersi riferita anche al limite di durata massima previsto dall’articolo 19, comma 2, Dlgs 81/2015 e successive modifiche, e al limite di proroghe e rinnovi previsto dall’articolo 21, comma 2, dello stesso Dlgs e successive modifiche».

Quindi si potrà prescindere, nel settore, dal limite di durata per sommatoria (ora di 24 mesi) per i contratti tra lo stesso lavoratore e lo stesso datore di lavoro per le stesse mansioni. Anche questa possibilità di deroga contrattual-collettiva è infatti sopravvissuta al decreto dignità.

Quello che non è invece possibile, per lo meno per un accordo nazionale, è la deroga al (nuovo) limite di durata del singolo contratto (12 mesi, estendibili a 24 solo a fronte delle causali previste). Quanto alle proroghe e ai rinnovi, il riferimento appare improprio. La norma richiamata (che si intende derogare) è infatti quella che prevede intervalli minimi tra un contratto e l’altro (il cosiddetto stop and go), ed è certamente derogabile. I nuovi limiti alle proroghe (massimo quattro e con causale ove portino al superamento dei 12 mesi) non sono invece derogabili dalla contrattazione collettiva. Né lo sono i limiti ai rinnovi, che necessitano di causale anche all’interno dei 12 mesi.

Una possibilità di deroga a proroghe e rinnovi può essere riconosciuta solo ai contratti di prossimità previsti dall’articolo 8 della legge 148/2011, in presenza dei requisiti previsti, ma non alla contrattazione collettiva “ordinaria”. Quindi, anche nello specifico settore, il contratto a termine potrà essere ripetutamente rinnovato senza incontrare il limite per sommatoria dei 24 mesi, ma dovrà soggiacere alle causali previste dalla legge fin dal primo rinnovo. Il che riduce drasticamente la portata pratica della deroga.

Il protocollo poi si segnala per il tentativo di offrire al settore «parametri utili a differenziare l’attività subordinata rispetto a quella del lavoratore autonomo». Tali parametri vengono individuati in un fatturato lordo annuo minimo (33.000 euro), nella collaborazione nell’arco dell’anno con almeno 3 diverse imprese, nel non aver lavorato per più di 30 settimane consecutive presso lo stesso datore di lavoro. In presenza di almeno uno di tali requisiti, la prestazione dovrebbe intendersi autonoma, con applicazione delle tutele previste dalla legge 81/2017, il Jobs act degli autonomi. Si tratta di un interessante (seppur settoriale) esperimento definitorio, destinato tuttavia a fare i conti con il consolidato principio della indisponibilità del tipo contrattuale.

La Corte costituzionale ha infatti più volte affermato che non è consentito neppure al legislatore (e quindi tantomeno alle parti, individuali o collettive) negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili di tutela previste dall’ordinamento. Pertanto, in applicazione di tale principio, un rapporto di lavoro che presenti nei fatti contenuto e modalità di esecuzione propri della subordinazione, non potrebbe essere considerato autonomo solo per il fatto di integrare uno dei parametri individuati nel Protocollo. In altre parole, se il rapporto ha le caratteristiche della subordinazione (prima fra tutte l’eterodirezione), ad esso non può che essere applicata la relativa disciplina, senza possibilità di deroga.

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