Contrattazione

Referendum sul lavoro: ritorno al passato da evitare

di Carlo Dell’Aringa

Oggi la Corte Costituzionale è chiamata ancora una volta ad esprimersi su quesiti di portata fondamentale sul piano economico e sociale. Non è la prima volta in questi anni.

È successo con la sentenza sulla perequazione (“indicizzazione”) delle pensioni e poi ancora sulla questione dell’adeguamento delle retribuzioni dei pubblici dipendenti.

Ma questa volta la posta in gioco è ancora più alta. I referendum propongono il ritorno al passato, che non è quello prossimo, ma quello remoto. Addirittura al tempo precedente lo Statuto dei lavoratori che è del 1970, laddove si propone di estendere l’applicazione della “reintegra” (sul posto di lavoro) del lavoratore licenziato in modo illegittimo, nelle imprese sopra i 5 addetti.

Se passasse una ipotesi del genere il famoso “nanismo” delle imprese italiane che spesso viene indicato come una delle cause della scarsa crescita della produttività e del lento processo di innovazione, sarebbe ulteriormente incentivato. Le imprese non tenderebbero a rimanere sotto i 15 dipendenti come hanno cercato di fare fino a poco tempo fa, ma addirittura sotto i 5 dipendenti, per evitare il pericolo potenziale della “reintegra”.

Sul piano giuridico, molto è stato detto a proposito della “ammissibilità” dei quesiti (che è appunto l’oggetto della sentenza della Corte). Sull’art. 18 in particolare si è espressa con valide motivazioni la Avvocatura dello Stato.

E numerosi studiosi di diritto del lavoro ritengono che il metodo del “taglia e cuci” applicato dai proponenti del quesito sul testo delle norme attuali, sia di fatto la proposizione di una nuova norma e non più l’abrogazione della norma in vigore. E pertanto si tratterebbe di un referendum propositivo (non abrogativo) che non è previsto dall’attuale carta costituzionale.

Il danno più grave di questi referendum è di far girare all’indietro le lancette dell’orologio non solo della normativa sul rapporto di lavoro, ma della stessa fiducia che faticosamente in questi anni si è cercato di diffondere all’interno del mondo delle imprese. Rendere le norme sulle assunzioni e più in generale sul rapporto di lavoro alle dipendenze più flessibili ha reso le imprese meno restie ad assumere e a creare posti di lavoro a tempo indeterminato. Insieme con la decontribuzione sulle assunzioni, l’occupazione stabile è cresciuta di diverse centinaia di migliaia di unità in questo ultimo periodo. E ora si tratta di consolidare questo risultato, in attesa di un intervento più strutturale sul cuneo fiscale che potrebbe essere avviato già dall’anno prossimo.

Si tratta di una eredità che va conservata con cura perché ha riportato l’incidenza del lavoro stabile su quello complessivo più vicino ai livelli pre-crisi. Se dovessimo di nuovo arretrare, sarà difficile recuperare di nuovo il terreno perso.

Se i quesiti dovessero essere dichiarati ammissibili, e questo riguarda soprattutto quello relativo all’art. 18, questo consolidamento dei risultati raggiunti sarebbe probabilmente a rischio. Le imprese si vedrebbero ancora una volta coinvolte in una fase di incertezza normativa. E l’incertezza è il nemico peggiore di un mercato del lavoro regolare e fluido, in quanto indurrebbe le imprese a un comportamento di “aspettare e vedere”, in attesa di quello che succederà. E nel frattempo potrebbero mostrarsi caute nel fare nuove assunzioni, o limitarle allo stretto necessario e rinviare il resto a tempi migliori e più certi.

È chiaro che in questo contesto l’occupazione stabile, proprio quella che si è voluto incentivare in questi anni, sarebbe maggiormente penalizzata.

In qualche misura diverso sarebbe l’impatto delle sentenze sugli altri due quesiti. Gli effetti sarebbero probabilmente meno gravi. Anche all’interno dei partiti politici e all’interno dello stesso governo, è diffusa la sensazione che qualche aggiustamento vada fatto, soprattutto per i voucher. Attenzione però a «non buttare via il bambino con l’acqua sporca».

È stato già messo in luce dai dati dell’Istat che per quanto in rapidissima crescita, il numero dei voucher oggi corrispondono, in termini di equivalenza di numero di ore complessivamente lavorate in un anno, a meno di 50 mila lavoratori a tempo pieno.

Non solo, ma i dati sinora raccolti mostrano che almeno al 70-80 per cento gli utilizzatori di voucher siano quei giovani, pensionati, disoccupati, lavoratori già occupati che svolgono attività che altrimenti finirebbero in nero. Facendo le proporzioni, rimarrebbe, in pericolo di “abuso”, un volume di voucher equivalente a non più di 10 mila lavoratori a tempo pieno. Ma se questa è la (limitata) dimensione del fenomeno, dove sta il pericolo di una progressiva precarizzazione del mercato del lavoro?

È vero comunque che si tratta di una questione che, in linea di principio, va affrontata anche se i numeri sono molto ridotti rispetto al volume complessivo dell’occupazione.

Per questo il tema va affrontato, così come intende fare il Governo. Un attento esame dei dati Inps, che sono molto dettagliati e articolati, e un serio confronto con le parti sociali, sono, sia su questa questione come su quella degli appalti (3° quesito), gli ingredienti utili per individuare i giusti correttivi per smussare le punte estreme e più spigolose nell’utilizzo di questi strumenti di flessibilità. In questo modo si evitano drastiche abolizioni o radicali ritorni al passato, che farebbero di «tutta l’erba un fascio», gettando a mare le cose buone fatte in questi anni.

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