Contrattazione

Ora si guardi al tema produttività

di Alberto Orioli

Che la Consulta abbia evitato di precipitare il Paese di nuovo al conflitto tra i Guelfi e Ghibellini dell’articolo 18 è certamente un bene. In questa fase di transizione planetaria dove si ridisegnano i confini del mondo e le nuove rotte dei flussi dell’economia, l’Italia è in affanno con i suoi zerovirgola e con il brutto spettro della deflazione e tutto serve tranne che tornare a quella “guerra dei trent’anni” su cui si è incagliato il Paese in tema del lavoro.

Quell’unicum italiano ha bloccato il riformismo e impedito al lavoro di dispiegare appieno tutto il suo potenziale di emancipazione e di cittadinanza consapevole; ha esaltato per decenni la retorica dei diritti del lavoro a danno del diritto al lavoro. Si sono creati così più conflitti sulle guarentigie che non posti di lavoro su cui applicarle. Un errore di prospettiva che il Paese ha pagato caro.

Il quesito sui voucher che la Corte ha accolto serve a ricordare come la parte del cosiddetto Jobs act sui buoni-lavoro sia risultata assai imperfetta nell’applicazione. Non ne erano stati immaginati gli abusi e gli usi border line.

È sbagliato camuffare come “lavoretto” ciò che sarebbe impiego a tempo pieno e stabile: è sbagliato per l’impresa se ancora sopravvive solo in ragioni dei bassi costi e di orizzonti limitati al brevissimo periodo come accade ad esempio a un terziario diventato di sopravvivenza; è sbagliato per il lavoratore che non può pianificare un futuro dignitoso e diventare a pieno titolo cittadino consumatore, risparmiatore e investitore; è sbagliato per il Paese che non può far conto su un mercato del lavoro equilibrato e primo, solido veicolo della crescita economica.

Resta sacrosanta però la motivazione originale di quei voucher, se solo non si voglia essere ipocriti o ideologici: far emergere quote di lavoro grigio o sommerso per riportare a regolarità contributi altrimenti evasi (i 160 milioni di voucher venduti nel 2016 corrispondono a 400 milioni di euro per Inps e Inail). Una legge provvederà a ristabilire i giusti confini di questo strumento.

Non sarà facile invece evitare, qualora il referendum avesse successo nel quesito sugli appalti, il rischio di rendere ancora più complicate (se non di bloccare del tutto) le opere per gli effetti non controllabili della introduzione della responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore.

Se bisogna trarre una conclusione dall’intervento della Consulta, è che la stagione del riformismo “a sportellate” del renzismo ha bisogno di un inevitabile tagliando, di una messa a punto razionale dopo la stagione tumultuosa che intendeva rottamare un’intera cultura, oltre che un’intera classe dirigente.

È importante il ripensamento nei fatti di una delle prime suggestioni del renzismo, la disintermediazione sociale, l’idea che bastasse il contatto tra il leader e il popolo, senza passare dalla fase di interlocuzione e confronto con le parti sociali. Era un modo per negare la struttura portante dell’Italia, di una rappresentanza composita degli interessi, non necessariamente sempre riducibili a corporazione o a zavorra culturale propria dei “veto player”. Una rappresentanza che è stata anche tessuto connettivo per evitare pericolose disgregazioni e spesso capace di creatività sociale utile anche alla modernizzazione dell’economia. Proprio il ritorno al protagonismo delle parti sociali può aiutare molto la messa a punto del riformismo accelerato e imperfetto proprio della prima parte della legislatura. Imprese e sindacati si stanno già confrontando in modo concreto su temi preziosi come la competitività e il rilancio di un modello di sviluppo centrato sulla fabbrica e sulla necessità di recuperare produttività, facendola diventare oltre che un dato anche un nuovo valore culturale.

Passa proprio da qui la difficile saldatura tra il ripensamento della disintermediazione sociale e la disintermediazione di una parte dell’economia creata dalla diffusione degli acquisti in rete e delle nuove modalità di condivisione dei beni indotta dalla “share economy”; in attesa di vedere dispiegati tutti gli effetti del Piano Industria 4.0 con cui l’Italia si ripropone di fare un passo avanti nella scelta del paradigma tecnologico per gestire la propria manifattura, al Paese serve ora uno scatto che consenta di allargare la torta della ricchezza da dividere tra investimenti e salari. Un modo importante per rendere più omogenea l’Italia polarizzata tra sviluppo e non, tra digitalizzati e non, tra inclusi nel welfare ed esclusi, tra chi ha competenze spendibili e formazione generica e insufficiente, tra chi ha un’alfabetizzazione economica sufficiente ad affrontare mercati complessi e chi è preda di nuove forme di analfabetismo di ritorno. E ciò sarà possibile solo se la produttività diventerà la priorità di molte azioni di politica economica oltre che dei comportamenti sociali. È importante prendere consapevolezza che dall’aumento della produttività passa una forza lavoro in grado di sfruttare appieno l’innovazione tecnologica; un’impresa orientata alla ricerca e alla globalizzazione, preoccupata di aumentare il proprio perimetro e magari anche di modificare la propria struttura finanziaria; un Paese capace di creare contesti utili alla crescita dell’industria e alla formazione ottimale del suo capitale umano, precondizioni fondamentali per accrescere il benessere collettivo.

Disinnescata la mina dell’articolo 18 ora imprese e sindacati hanno di fronte un percorso strategico per definire i dettagli del Patto per la fabbrica che ha l’ambizione di traguardare un intero Progetto Paese. Hanno di fronte anche la sfida su quali siano le migliori modalità con cui distribuire quote di produttività nei salari e, per questa via, migliorare la qualità dell’occupazione e la qualità degli investimenti.

Produttività diventa una parola-test anche per comprendere di quale pasta sia fatto il riformismo “alla Gentiloni”. Perché le riforme di contesto per aumentare innovazione, sviluppo e presenza delle imprese sul territorio (soprattutto nei territori dove lo sviluppo sembra assente) non sono certo finite. E, se vogliamo seguire uno degli insegnamenti del jobs act, è chiaro come gli incentivi abbiano avuto un ruolo decisivo nella creazione di nuovi posti di lavoro. Ora che la decontribuzione è rimasta solo per il Sud, ad esempio, è ormai indifferibile un intervento deciso per affrontare, una volta per tutte, il tema del cuneo fiscale.

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