Contrattazione

Nelle tutele crescenti il patto di prova nullo apre alla reintegra

di Daniele Colombo

La redazione del patto di prova richiede molta attenzione, anche per le assunzioni con il contratto a tutele crescenti. Il licenziamento intimato al lavoratore assunto con questa tipologia contrattuale per mancato superamento del periodo di prova, la cui clausola sia nulla per vizi formali o sostanziali, infatti, in alcune delle prime pronunce dei giudici di merito, hanno dato spazio alla reintegrazione in servizio del lavoratore.

Il Dlgs 23/2015 che disciplina il contratto di lavoro a tutele crescenti non contiene alcun chiarimento su questo tema. Le prime decisioni di merito dei giudici si sono orientate verso l’applicazione dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, che prevede, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore. Inoltre, il datore deve versare al lavoratore un’indennità risarcitoria fino a un massimo di 12 mensilità. A questo fine, in giudizio dovrà essere dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, senza alcuna valutazione sulla proporzionalità della sanzione espulsiva. La norma, quindi, si riferisce inequivocabilmente solo alle fattispecie di licenziamento per motivi soggettivi.

Secondo parte della giurisprudenza, tuttavia, anche l’invalidità del patto di prova per carenza di forma e di sostanza darebbe luogo alla condanna del datore di lavoro alla reintegrazione in servizio del dipendente in quanto il licenziamento, in questo caso, poiché fondato su una ragione inesistente, sarebbe ingiustificato in base all’articolo 1 della legge 604/1966 ( si vedano le sentenze del Tribunale di Milano, sezione lavoro, 2912 del 3 novembre 2016 e del Tribunale di Torino, sezione lavoro, 1501 del 16 settembre 2016). L’accertata inesistenza delle ragioni poste alla base della motivazione del recesso, comporta, secondo questa interpretazione, l’insussistenza del fatto materiale.

Un’altra sezione del Tribunale di Milano, invece, in un giudizio avente a oggetto il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova di una lavoratrice disabile assunta con il contratto a tutele crescenti, è arrivata invece a conclusioni diverse, affermando l’inapplicabilità delle disposizioni previste dall’articolo 3, comma 2, della legge 23/2015.

Dopo aver accertato la nullità del patto di prova apposto al contratto di lavoro il giudice ha ritenuto applicabile l’articolo 3, comma 1, che sanziona con la sola indennità economica l’illegittimità del recesso datoriale: nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro a versare un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a 24 mensilità.

Secondo questo orientamento, la tutela reintegratoria prevista in caso di insussistenza del fatto materiale (articolo 3, comma 2) è applicabile ai soli licenziamenti disciplinari (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza 730 dell’8 aprile 2017, giudice Bertoli).

Vedremo come si consoliderà la giurisprudenza, anche alla luce, da una parte, del tenore letterale della norma e, dall’altra, della ratio del Jobs Act, che è quella di rendere eccezionale e sporadica la sanzione della reintegrazione.

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