Contrattazione

Niente passaggio diretto dal lavoro a chiamata a quello ordinario

di Antonino Cannioto e Giuseppe Maccarone

I datori di lavoro, che occupano dipendenti intermittenti e intendono modificare il rapporto in essere facendolo diventare un contratto di lavoro subordinato di tipo ordinario, sono costretti a far dimettere il lavoratore. Ciò in quanto, in genere, le procedure previste per le comunicazioni obbligatorie gestite dai centri per l’impiego non prevedono un’opzione che consenta direttamente la relativa trasformazione. Di conseguenza il lavoratore deve anche attivare la procedura di comunicazione delle dimissioni.

Il lavoro intermittente, poco apprezzato e molto criticato – oggetto anche di una temporanea abrogazione con successiva rivitalizzazione - è presente nel nostro ordinamento giuridico ormai da circa 15 anni. Sono numerose le aziende che vi fanno ricorso, soprattutto dopo l’eliminazione dei vecchi voucher per il lavoro accessorio, anche se sono pochi i Ccnl che lo hanno regolamentato. Il ministero del Lavoro, in una delle tante circolari interpretative lo ha definito come «una fattispecie lavorativa sui generis» ma ha anche affermato che «si tratta pur sempre di un contratto di lavoro dipendente».

La particolarità di tale tipologia lavorativa sta nel fatto che il dipendente si mette a disposizione del datore di lavoro per svolgere prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, individuate dalla contrattazione collettiva nazionale o territoriale, ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. Vista la struttura della regolamentazione di riferimento, non vi è dubbio che il lavoratore giochi un ruolo effettivamente non di primo piano nel contesto aziendale, stante la possibilità di essere collocato in stand by, al cessare dell’esigenza lavorativa. Tuttavia, il ricorso al job on call offre la possibilità di valutare le potenzialità del lavoratore e di apprezzarne il know how.

Alcuni anni fa è stata introdotta una norma che limita l’utilizzo del contratto intermittente a 400 giornate di effettivo lavoro nel triennio, con lo stesso datore di lavoro. Per le prestazioni più consistenti e durature, dunque, può sorgere l’esigenza di inserire il lavoratore in modalità più stabile. Il passaggio potrebbe e dovrebbe essere facilitato e reso immune da lacci e lacciuoli che si rivelano un’inutile perdita di tempo.

Forse, dopo un così lungo periodo di scomoda presenza, è giunto il momento di sdoganare il job on call e collocarlo di diritto tra le varie forme contrattuali che caratterizzano la quarta rivoluzione industriale. In tale ottica è auspicabile che gli obblighi di comunicazione siano semplificati. Si potrebbe, infatti, accedere al portale messo a disposizione degli operatori, richiamare per mezzo del codice fiscale delle parti l’unilav già trasmesso e aggiornarlo annotando la variazione. Resterebbe ferma, ovviamente, la necessità di sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro.

Revisionando le procedure, sempre in un’ottica di semplificazione, si potrebbe anche prevedere la modalità di variazione dell’unilav per il lavoro agile, con allegazione del contratto di smart working.

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