Contrattazione

Proseguire lungo la via della «flexsecurity»

di Paola Potestio

Il peso delle diverse forme contrattuali nei livelli di occupazione è tra i temi rilevanti del nostro mercato del lavoro. Le relazioni tra forme di tempo determinato e tempo indeterminato, a seguito del lungo, ma consistente processo di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, ne costituiscono il riferimento. Se si guarda ai livelli complessivi dell’occupazione a tempo determinato e indeterminato, la crescita del tempo determinato è significativa ma non straordinaria: la quota di occupati a tempo determinato è pari al 12,2% nel 2005 e tocca il 14% nel 2016. In un confronto europeo, la quota nella Ue a 28 è stabile: 14% nel 2005 e 14,2 nel 2016. Dunque, nel 2016 l’Italia è in linea con la media Ue.

I microdati di flusso di attivazioni, trasformazioni e chiusure dei rapporti di lavoro consentono di cogliere meglio i movimenti del mercato del lavoro e di caratterizzare in profondità dimensioni ed evoluzione delle forme contrattuali. Le banche dati del ministero del Lavoro e dell’Inps sono una fonte preziosa. Un’analisi dei dati di un sottoinsieme del sistema delle Comunicazioni Obbligatorie delle imprese al Ministero del Lavoro segnala aspetti di notevole rilievo nei rapporti tra tempo determinato e indeterminato. L’analisi fatta è circoscritta al settore manifatturiero di quattro regioni italiane, Lombardia, Veneto, Puglia, Campania. La distribuzione nei due segmenti di genere dei contratti attivati dal gennaio 2009 al settembre 2015 (dalla data iniziale della disponibilità dei dati in questione alla completa entrata in vigore del Jobs Act) fa emergere differenze e soprattutto uniformità tra regioni.

Un aspetto comune è la bassissima percentuale di lavoratori (di poco sopra al 10%) che in quasi sette anni hanno usufruito di diverse tipologie di contratto. Una nettissima maggioranza di lavoratori è concentrata su un solo tipo di contratto, a tempo determinato o a tempo indeterminato. La somma delle due componenti rappresenta quote comprese tra 77 e 88% dei lavoratori con almeno un’assunzione nel periodo considerato. In questa categoria, che prevale nettamente, e con l’eccezione del segmento maschile in Campania, la quota percentuale di lavoratori con esclusivi contratti a tempo determinato è superiore a quella dei lavoratori con esclusivi contratti a tempo indeterminato. Una asimmetrica polarizzazione sulle due forme contrattuali emerge in questi anni. Ora, il peso comuqnue rilevante di esclusivi contratti a tempo determinato in un arco di tempo di quasi sette anni indica, dal lato dei lavoratori, un fenomeno diffuso di precarietà e, dal lato delle imprese, un uso consistente delle flessibilità contrattuali introdotte.

I dati al dicembre 2016 mutano marginalmente il quadro descritto. Per focalizzare il peso del tempo determinato, si consideri che, nel periodo gennaio 2009-dicembre 2016, la quota di lavoratori con esclusivi contratti a tempo determinato sul totale dei lavoratori con contratti a tempo determinato oscilla tra il 75% del segmento maschile in Campania e l’84% del segmento femminile in Lombardia. L’ipotesi che percentuali così alte dipendano da una più elevata numerosità di lavoratori con esclusivi contratti a tempo determinato negli anni più recenti, induce a un ulteriore esercizio. Cioè confrontare la composizione dei contratti nell’iniziale 2009 e nel 2016, i cui dati sono completi. Limitando il confronto al segmento maschile, la quota del tempo indeterminato cresce nel 2016 solo in Campania, è stabile in Lombardia e si flette ancora in Veneto e Puglia. L'asimmetrica polarizzazione dell'occupazione su tempo determinato e indeterminato appare qui ancora più netta rispetto al 2009.

In che misura il tempo determinato è stato in questi anni una fase preliminare verso uno stabile rapporto di lavoro? I dati sulle trasformazioni di contratti vigenti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (forniti dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps) danno una risposta parziale al quesito. È ragionevole ipotizzare che le imprese attendano la chiusura del rapporto a tempo determinato per un nuovo contratto a tempo indeterminato. Una continuità tra i due contratti o un qualche intervallo tra i due lascia presumere che il tempo determinato sia stato un ponte verso il contratto a tempo indeterminato, ovverosia che si sia di fatto verificato un passaggio tra i due contratti. Un’analisi dei dati contrattuali di fonte ministero del Lavoro indica una consistenza molto limitata dei passaggi. Ne hanno usufruito circa il 6% dei lavoratori con contratti a tempo determinato nei due segmenti di genere in Lombardia e Veneto, e percentuali leggermente più elevate in Puglia e Campania.

Qualche conclusione. Seppure limitati al settore manifatturiero, i dati di flusso sui rapporti di lavoro indicano un consistente movimento verso il tempo determinato. Questo forte spostamento delle imprese sulle forme contrattuali a tempo determinato pone problemi di analisi e di policy. Le dimensioni dello spostamento, che coinvolge l’insieme dell’economia, appaiono difficilmente motivabili da un esclusivo riferimento a una comparativa maggiore rigidità dei rapporti a tempo indeterminato. Individuarne le (probabilmente composite) determinanti è oggi un problema aperto all’analisi economica. Per quanto riguarda la policy, vale premettere che l’introduzione di flessibilità nelle forme contrattuali è stata nel complesso un processo necessario e positivo. Al di là di qualche margine di pragmatismo nelle decisioni prese, un obiettivo positivo e ultimo di flexsecurity appare l’ispirazione di fondo delle recenti linee di policy. È un processo da ritenere non concluso. Interventi diretti a favorire un più equilibrato rapporto tra le due tipologie di contratto sono opportuni. Gli sgravi contributivi della Legge di stabilità 2018 potranno dare un aiuto in questa direzione.

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