Contrattazione

Welfare per un’azienda su 5 ma al Sud è sconosciuto

di Cristina Casadei

Parte con un viaggio al Carroponte di Sesto San Giovanni, luogo simbolo della siderurgia italiana, il racconto del primo rapporto sul Welfare occupazionale e aziendale in Italia, curato dalla Fondazione Adapt e sostenuto dal gruppo Ubi. Sulla copertina è stata messa un’immagine del villaggio di Crespi d’Adda che ha un significato evocativo per l’esempio di welfare economico, dunque ben al di là del paternalismo, che quel villaggio ha rappresentato. «Il recente fenomeno del welfare - osserva il presidente del Consiglio di Gestione Ubi, Letizia Moratti - supera le logiche paternalistiche del ’900 industriale e della imprenditoria illuminata dell’800. Ma non può certo essere circoscritto e limitato dentro i rigidi confini aziendali. È in atto un cambiamento di paradigma economico e anche sociale che trova nel nuovo welfare una pietra angolare ».

Scandagliando oltre 2mila contratti, i ricercatori Adapt hanno cercato di ricostruire molte sfaccettature del welfare privato nel nostro paese. Tre dati innnazitutto lo possono rappresentare: il primo è che la welfarizzazione degli accordi di secondo livello ha avuto una spinta molto forte grazie alla defiscalizzazione: se nel periodo 2012-2015 solo l’1% delle aziende prevedeva la possibilità di convertire il premio di risultato in welfare, la percentuale è salita al 18% nel biennio 2016-2017. Il secondo è regionale e mostra che il welfare, nel campione di contratti considerati, vede una netta prevalenza di intese sottoscritte nelle regioni del nord (66%), seguite da centro (30%) e sud-isole (4%). Rispetto ai contenuti prevalgono gli istituti dell’area della cosiddetta conciliazione vita-lavoro (55%).

«È stato come entrare in una miniera dove abbiamo ritrovato tanti frammenti a cui abbiamo cercato di dare un ordine, con una logica di sistema», racconta il professor Michele Tiraboschi che un anno fa ha lanciato insieme a Letizia Moratti, l’osservatorio Ubi-Adapt. Il welfare aziendale ha uno sviluppo frammentario e diseguale e, come è stato osservato dal presidente del Cnel, Tiziano Treu, «la possibilità di contrastare un simile rischio non dipende dalla evoluzione spontanea delle dinamiche sociali e negoziali. Richiede che le varie esperienze vengano inserite in un quadro d’insieme che ne orienti le priorità e gli obiettivi delle esperienze, senza snaturarne la natura e i caratteri privatistici». Il volume ha un duplice obiettivo, spiega Tiraboschi: «Offrire un quadro abbastanza ampio e attendibile di informazioni e casistiche per orientare lavoratori e imprese e contribuire a ricondurre in una logica di sistema le molteplici e variegate esperienze in atto, per raccontare un welfare che non sia tanto e solo strumento di riduzione dei costi ma una risposta concreta alla trasformazione del lavoro».

La natura del rapporto di lavoro, con la quarta rivoluzione industriale, è profondamente mutata, con l’introduzione degli strumenti di welfare nello scambio contrattuale tra lavoro e retribuzione. Un esempio su tutti è il contratto dei metalmeccanici, citato come un caso. Stefano Franchi, direttore generale di Federmeccanica, ci tiene a ribadire come «si tratta di un contratto che parla sì di quantità, ma parla soprattutto di qualità. Noi abbiamo fatto un rinnovamento contrattuale, abbiamo avviato un cambiamento culturale e tutto ciò porterà a nuovi modelli organizzativi». Ci vorrà tempo per vedere questa mutazione, ma il segretario confederale della Cisl, Gigi Petteni, è convinto che «questa strada non la ferma più nessuno. Il welfare si è diffuso per semina, non per incentivi». Gerhard Dambach, amministratore delegato Bosch Italia, offre spunti nel segno della cautela perché dice che «quando si offre qualcosa ai lavoratori è necessario fare attente valutazioni sulla sua sostenibilità per l’impresa. L’effetto negativo che ha togliere qualcosa è molto maggiore rispetto all’effetto positivo ottenuto dando qualcosa. Tra le misure privilegiate, nel nostro specifico caso, vi sono quelle di flessibilità oraria e del concierge, ma oggi dobbiamo sforzarci per inserire nel welfare anche la formazione che ha un valore sicuramente più alto dei biglietti del cinema». Il welfare aziendale, come spiega Rossella Leidi, vice direttore generale e chief wealth and welfare officer di Ubi, «è un’opportunità per innovare, far crescere le imprese del territorio e il terzo settore, ma anche per migliorare il benessere per la collettività». Il potenziale degli accordi siglati da Ubi Banca con le associazioni imprenditoriali e di categoria, a un anno dall’avvio della divisione Ubi Welfare, riguarda misure destinate a 17.000 imprese. Ubi «grazie alla sua capillarità sul territorio, punta a raggiungere anche le pmi con servizi ad hoc - aggiunge Leidi -: dall’assistenza sanitaria alla previdenza, dal rimborso delle spese per educazione e cura dei figli e della famiglia a beni e servizi per il tempo libero».

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