Contrattazione

La soluzione dei contratti collettivi

di Mariella Magnani

Il dibattito aperto da Il Sole 24 Ore, “Nuovo lavoro, quale diritto”, è invero ricorrente in ambito accademico e istituzionale, da quando è venuta meno la fissità del paradigma organizzativo fordista.

A partire dagli anni 80 del secolo scorso, innovazione tecnologica e mutamenti dei modelli organizzativi delle imprese hanno posto periodicamente il problema di aggiornare la regolazione dei rapporti di lavoro, ivi compreso il welfare, ma sempre sostanzialmente nel perimetro del lavoro subordinato.

Che cos’hanno di diverso oggi la rivoluzione digitale e, ancor più specificamente, il lavoro tramite piattaforma? Essi interrogano il cuore del diritto del lavoro e le sue categorie fondative, in particolare la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Casi come quelli di Uber e Foodora (e omologhi) mostrano che non si tratta più semplicemente di affinare, dottrinalmente e giurisprudenzialmente, gli indici della subordinazione, come anche il Jobs Act ha tentato di fare, bensì di costruire assetti di tutela adeguati ai nuovi modi di lavorare, al di là delle fissità della distinzione autonomia/subordinazione che, come dice Orioli, non riesce a intercettare la rapida evoluzione materiale dei comportamenti di datori di lavoro e occupati.

Casi come quelli di Uber e Foodora mostrano come l’idea di un cosiddetto Statuto dei lavori – ricordata da Treu e Tiraboschi, e che si può sintetizzare nell’esigenza di prendere in considerazione tutto il lavoro personale (o prevalentemente personale) in qualunque forma si dispieghi, autonoma o subordinata, e graduare l’intensità delle protezioni in relazione alle esigenze di tutela – sia stata troppo frettolosamente accantonata.

È un’idea che, per come è emersa e si è affermata nel dibattito a cavallo degli anni Duemila, ha forse un sapore astratto e illuministico, ma che proprio a partire dal lavoro tramite piattaforma potrebbe acquisire impulso e concretezza. Se si guarda oltralpe si possono trarre indicazioni significative: con la tipica, ma efficace, attitudine regolatoria casistica del legislatore francese, la loi Travail del 2016 ha previsto a favore dei lavoratori indipendenti tramite piattaforma, qualora questa determini le caratteristiche della prestazione di servizio fornito o del bene venduto e fissi il suo prezzo, una serie di diritti normalmente non riconosciuti ai lavoratori autonomi. Si tratta dell’assicurazione sociale in caso di infortuni e malattie professionali, del diritto alla formazione professionale continua, del diritto di astenersi dai propri servizi per difendere interessi professionali senza incorrere in responsabilità contrattuale (una sorta di diritto alle astensioni collettive dal lavoro), del diritto di organizzazione sindacale.

Nel Regno Unito, riconoscendo la difficoltà sociale, economica e politica di negare almeno alcune tutele del lavoro subordinato al lavoratore economicamente dipendente, si è creata la categoria dei worker, una categoria intermedia tra employee e self-employed, cui applicare uno statuto protettivo ridotto: il salario minimo, la limitazione dell’orario di lavoro, il diritto alle ferie, la tutela contro il whistleblowing. E, nel caso Uber, è venuta in questione appunto l’applicazione ai driver di questo statuto, in particolare il salario minimo e la limitazione dell’orario. La variabilità dei lavori creati dall’economia digitale sconsiglia però soluzioni legislative generali. La Gig economy coinvolge un ampio ventaglio di lavoratori, dai freelance che godono davvero della flessibilità di queste piattaforme a lavoratori di bassa qualificazione per cui essa è una scelta necessitata.

Forse è il caso di guardare con maggiore fiducia alla capacità dell’autonomia collettiva anche in questo campo, se è vero che altrove già si registrano esperienze in tal senso e, ad esempio, in Danimarca è stato stipulato l’equivalente di contratto collettivo nazionale per i gigger (vedi Sole 24 ore del 18/04/2018) che prevede tutele come ferie pagate, contributi previdenziali, ma soprattutto un salario minimo.

Ogni sistema nazionale ha la sua strada. Sotto questo profilo, il Jobs Act, pur muovendosi nella “bicromia” del lavoro o subordinato o autonomo, contiene un’apertura interessante là dove affida ai contratti collettivi il potere di disciplinare alternativamente le collaborazioni nei settori che presentano «particolari esigenze produttive ed organizzative» consentendo di plasmare e graduare fattispecie e tutele. Un’apertura legislativa alle risorse dell’autonomia collettiva da valorizzare e non da ostracizzare, come per lo più si è fatto dai giuristi, se si vogliono costruire assetti di tutela adeguati ai sempre più variegati modi di prestare lavoro a favore (anche) di altri.

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