Contrattazione

Contratti a termine più lunghi, la «buona» anomalia del Jobs act

di Marco Fortis

Tra le tante riforme e misure di politica economica degli ultimi anni che è augurabile non siano toccate dal nuovo governo italiano giallo-verde, ma casomai implementate e completate, vi è anche il Jobs act, reo secondo una vulgata molto diffusa di avere creato una notevole quantità di lavoro precario. Una seria analisi comparata dei dati sulle rilevazioni delle forze di lavoro non solo smentisce questa tesi ma dimostra che il lavoro a termine è assai meno precario in Italia che in altri importanti Paesi europei.

I numeri nudi e semplici sono questi. Rispetto al 2013, nel 2017 vi erano in Italia 999mila posti di lavoro dipendenti in più per tutte le fasce di età dai 15 anni in su. Di questi 999mila nuovi posti di lavoro, ben 474mila, cioè quasi la metà, erano a tempo indeterminato: una dimostrazione chiara che le politiche del lavoro hanno avuto un risultato più che apprezzabile in termini di creazione di nuovi posti fissi. Altri 525mila erano invece nuovi posti di lavoro a termine. Troppi? Una anomalia italiana? Un confronto con i dati Eurostat relativi agli altri maggiori Paesi Ue dimostra che non è affatto così.

Innanzitutto, il peso dei posti di lavoro a termine sul totale degli occupati dipendenti in Italia nel 2017, a Jobs Act avviato, era pari al 15%: una cifra assai inferiore non solo a quelle della Spagna (27%) o di un grande Paese non euro come la Polonia (26%) ma anche alle percentuali dell’Olanda (22%), della Francia (17%) nonché dello stesso valore medio dell’Eurozona (16%), abbassato principalmente dalla Germania (13%).

Nel 2017 gli occupati dipendenti a termine erano in Italia 2,7 milioni contro i 4,2 milioni della Spagna e i 4 milioni della Francia. Giusto per capire le dinamiche recenti, la crescita del numero dei dipendenti a termine in Spagna è stata di 935mila persone negli ultimi 4 anni, cioè quasi l’80% in più che in Italia, mentre in Francia è stata di 485mila persone, cioè solo poco meno che in Italia, partendo però da livelli molto più alti. L’Italia non è dunque una anomalia nel mercato del lavoro europeo in termini di troppi occupati a termine, anzi il contrario.

Quanto alla presunta esplosione del precariato nel nostro Paese determinata dal Jobs act, sono di particolare interesse i dati comparati europei suddivisi per classi di durata dei contratti di lavoro. Nel 2017 i contratti a termine inferiori al mese erano 594mila in Francia, 191mila in Spagna, 110mila perfino nella piccola Svezia, contro i soli 88mila dell’Italia. Nel complesso, i contratti a termine inferiori ai 3 mesi erano nello stesso anno 1,2 milioni in Francia, 740mila in Spagna e 622mila in Italia, cioè la metà che in Francia. L’Italia presentava invece un numero leggermente più elevato di lavoratori a termine con contratti di più lunga durata, e dunque meno precari, da 4 mesi fino a un anno, pari a 1,5 milioni, contro gli 1,4 milioni della Francia e 1,3 milioni della Spagna.

Tra il 2014 e il 2017 la crescita degli occupati dipendenti a termine in Italia è stata dovuta per ben 3/4 a soli cinque settori dell’economia, quelli che hanno più tirato la ripresa: manifattura, turismo, commercio, trasporti e stoccaggio, agricoltura. Nessuno shock particolare di precariato, dunque, per colpa del Jobs act. Ma un mercato del lavoro che si è mosso in modo del tutto logico in linea con la dinamica economica. La manifattura, infatti, ha assunto in questi ultimi anni parecchio nuovo personale giovane in prova con contratti a termine di breve durata ma con un elevato tasso di conversione successivo a posti fissi. Mentre gli altri quattro settori citati presentano un elevato fabbisogno intrinseco di stagionalità che ha trovato nella fase recente di intensa ripresa una risposta naturale nell’istituto del lavoro a termine.

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