Contrattazione

Il tempo di nuove tutele e dei «diritti 4.0»

di Marina Brollo

Per stare al passo di un futuro digitale che è già dentro le nostre vite quotidiane e gli ambienti di lavoro, Alberto Orioli e Il Sole 24 Ore hanno lanciato una sfida che costringe a un ripensamento delle regole del diritto del lavoro. Sulla scia di alcune suggestioni del dibattito, vorrei andare oltre la questione dei confini delle categorie giuridiche (subordinazione versus autonomia e dintorni). Andare oltre, ragionando sulle trasformazioni in atto nel mondo delle imprese e del lavoro, per individuare ipotesi concrete di nuove protezioni per rendere le flessibilità o le insicurezze dei lavoratori e delle imprese meno eccessive o insostenibili.

Le trasformazioni nella realtà produttiva italiana sono in ritardo e a macchia di leopardo (Istat 2017), ma l’innovazione avanza e avanzerà come una marea. Con inevitabili ripercussioni sulle condizioni di lavoro, dentro e fuori le mura delle aziende. Tali effetti vanno, dunque, indagati prima ancora che si manifestino in modo compiuto per governarli, con opportune scelte degli attori istituzionali e sociali. Purtroppo, mentre il tema di Impresa 4.0 è presente nella maggior parte dei programmi elettorali, minor attenzione ha ricevuto quello di Lavoro 4.0.

Segnalo l’emersione di una relazione forte fra innovazioni e organizzazione: le imprese innovative mostrano una rincorsa reciproca fra trasformazioni tecnologiche e modifiche all’architettura organizzativa della produzione e del lavoro. Un filone di studi aziendalistici teorizza, allora, paradigmi di «cambiamento come costante» e di aumento della «complessità su misura», quali risorse generatrici di valore per l’economia. Se così sarà, l’era digitale potrebbe rilanciare il cosiddetto capitale umano quale fulcro e acceleratore della crescita socio-economica, con la riscoperta della dimensione qualitativa del lavoro. Con il corollario di una rilevanza crescente delle competenze e delle abilità, non solo tecniche ma anche personali e sociali distintive dell’essere umano, con una dimensione di coinvolgimento e forse di partecipazione dei lavoratori.

Ma qui emergono le debolezze del nostro capitale umano per le basse competenze digitali, spesso non soltanto dei lavoratori, e la scarsa partecipazione ai corsi di formazione continua. E soprattutto rileva il dato demografico: la forza lavoro italiana è in una fase di forte invecchiamento, caratterizzato da una minor dimestichezza con le tecnologie digitali e maggiori difficoltà di adattamento.

Così, le trasformazioni emergenti, seppure potrebbero rendere centrale il ruolo (e la gestione) delle risorse umane per la catena di valore delle imprese 4.0, nel contempo, rendono più fragile e vulnerabile la maggioranza delle persone che lavorano. Facendo emergere l’esigenza di nuove forme di tutela o di Diritti 4.0; esigenza diffusa e trasversale al di là dell’etichetta del contratto di lavoro. Fra le nuove tutele risalta quella della professionalità, intesa nel senso più ampio possibile. Solo una professionalità “liquida” che valorizzi le competenze trasversali e relazionali potrà consentire ai lavoratori di non essere superati e spodestati dalle intelligenze artificiali e dall’internet delle cose. A tal fine, la formazione potrebbe garantire il rafforzamento di conoscenze e competenze, promuovendo anche libertà, dignità e identità della persona che lavora.

A conti fatti, la garanzia della professionalità, in un mercato del lavoro che cambia sempre più velocemente e diversamente, rappresenta uno strumento indispensabile sia quale leva per la competitività delle aziende, sia quale potenziale antidoto non solo alla disoccupazione, ma alla stessa povertà nel lavoro.

Bene ha fatto, dunque, il Jobs Act a valorizzare la leva della formazione per tutti i lavoratori: sia subordinati (in caso di mutamento di mansioni e ove necessario), sia non subordinati. Ma lo ha fatto, specie nel primo caso, con un prototipo di regole ambigue che necessitano di un’opportuna messa a punto. In attesa di un’eventuale manutenzione legislativa, la contrattazione collettiva, specie quella aziendale, potrebbe dare una mano per tradurre l’obbligo dalle parole della norma alla realtà del vissuto quotidiano.

Di più, alla stessa contrattazione è affidato il compito di cambiare il frame, cioè di adeguare le obsolete scale di inquadramento professionale alle trasformazioni del mondo del lavoro. Credo sia ormai tempo di attivare un cantiere operativo e di iniziare un percorso per trasformare tale sistema, da “mappa” dettagliata delle professionalità (incentrata su figure precise e statiche) a “bussola” di orientamento (incentrata su processi dinamici e aperti al cambiamento) dei modelli di competenze e professionalità, anche nella direzione di figure professionali ancor prive di nome.

Per attivare il processo di messa in valore della persona e delle sue potenzialità, le stesse parti sociali - sindacati e imprese - hanno l’esigenza di un’adeguata formazione, meglio se multi e interdisciplinare e con contaminazioni fra saperi differenti. Ritengo che le conoscenze e le competenze specialistiche presenti nelle nostre Università, anche in quelle delle periferie, frutto della ricerca e della formazione, possano fornire un contributo prezioso, con il trasferimento tecnologico e i corsi di formazione su misura. Ma questo sarà possibile se sarà permesso, anche a noi, di sperimentare l’Autonomia nell’organizzazione e gestione delle relative attività senza i lacci e i lacciuoli di una burocrazia ottusa che frena il cambiamento anche delle Istituzioni.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©