Contrattazione

Il contratto a termine cerca l’uscita dal labirinto delle nuove causali

di Dario Aquaro e Alessandro Rota Porta

Dalla ripresa dei contenziosi all’aumento dei turnover. Mentre si moltiplicano le voci critiche sulla riscrittura della disciplina dei contratti a termine (e già si elencano i necessari ritocchi in Parlamento), una cosa può dirsi certa: le nuove regole introdotte dal decreto dignità porteranno le imprese a rivedere i processi organizzativi sulla gestione delle risorse umane. Il prossimo effetto di irrigidimento sul mercato del lavoro non è il risultato di un esercizio teorico. Se con l’impianto delineato dal Jobs act i datori erano infatti sicuri di poter contare su un polmone di flessibilità (da non confondere con “precarietà”), per far fronte alle variabili dei rispettivi settori, ora non sarà più così: l’uso dei contratti a tempo determinato potrà avvenire con il contagocce, dopo aver fatto lo slalom tra i paletti delle nuove regole.

Il tema principale riguarda le causali – eliminate con il Dlgs 81/2015 e ora restaurate – e il labirinto di vincoli disegnato attorno ad aziende e lavoratori (si vedano le schede in alto). Non a caso negli ultimi giorni c’è stata l’incertezza ha alimentato la spinta alla proroga e al rinnovo dei contratti attivi, prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto. A tal proposito, un aspetto da non trascurare concerne la contrattazione collettiva, che vede annullato il proprio ruolo nel “superare” o declinare diversamente la disciplina delle causali (obbligatorie superati i primi dodici mesi di contratto). Una scelta opposta rispetto alle disposizioni scorse (anche pre-Jobs act), le quali – pur prevedendo alcune fattispecie di impiego vincolate alle causali nella stipula dei rapporti a termine – avevano comunque delegato alle intese sindacali di qualsiasi livello la scelta di bypassare il sistema, o di modificarne il perimetro, a seconda delle esigenze aziendali o di comparto.

Peraltro, l’obbligo della causale non si limita alla sola ipotesi del contratto con termine iniziale superiore a dodici mesi, poiché la motivazione va inserita anche se il rapporto resta sotto i dodici mesi, in caso di rinnovo. Mentre, in caso di proroga, solo se il periodo aggiuntivo determina il superamento dei dodici mesi stessi.

Quanto alla definizione delle causali, così come sono riportate nel decreto, l’interpretazione appare tutt’altro che semplice. Sono state individuate due diverse tipologie di ragioni giustificatrici: le prime estranee al campo della “ordinaria attività” del datore di lavoro; le seconde riferite a quest’ultima.

Se nel primo caso l’indicazione della causale è piuttosto chiara, dovendo focalizzarsi sui requisiti della temporaneità e dell’oggettività, le cose si complicano a proposito delle esigenze connesse all’attività ordinaria, che sono assai più stringenti. Su questo punto, il provvedimento richiede infatti «incrementi temporanei, significativi e non programmabili». Tre condizioni che, di fatto, si devono verificare congiuntamente. E, quindi, ci si deve innanzitutto trovare di fronte a un incremento dell’attività ordinaria e a picchi di attività; per poi “scandagliare” gli altri requisiti, i cui labili confini potranno però facilmente generare contenzioso. Poiché, è utile ricordarlo, l’illegittima apposizione della causale consente al lavoratore di invocare in giudizio la trasformazione a tempo indeterminato del contratto, fin dalla sua stipula.

In sostanza, è plausibile che la maggior parte dei nuovi contratti a termine non andrà oltre la soglia dei dodici mesi “acausali”. E che le aziende, in questo senso, trovandosi prive della giusta cornice di flessibilità dell’impiego, saranno portate ad adottare politiche di maggior turnover.

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