Contrattazione

Senza incentivi al lavoro stabile la «dignità» resterà un’illusione

di Bruno Caruso

Tra i diversi articolati del decreto dignità la parte dedicata al lavoro a termine è quella che sta suscitando le critiche più accese. La più diffusa è che, con ogni probabilità, le nuove regole non favoriranno la creazione di rapporti di lavoro duraturi ma produrranno l’effetto contrario, o in forma di aumento del lavoro nero, o di incentivo a pratiche elusive dello stesso decreto. Il provvedimento, infatti, non pare né culturalmente né tecnicamente attrezzato per intraprendere la «guerra» contro la precarietà, proclamata dal ministro Di Maio.

Non lo è culturalmente perché riflette l’atavica illusione, propria del tradizionale approccio garantista, che limiti e vincoli normativi alle decisioni di impresa, possano produrre i comportamenti ritenuti virtuosi dal legislatore. Gli studi di sociologia del diritto ci dicono, invece, che le norme intrusive, burocraticamente conformative di comportamenti, rischiano solo l’irrilevanza sociale e l’ineffettività giuridica in forma di prassi elusive.

Non lo è soprattutto tecnicamente perché il provvedimento non prevede alcuno strumento per incentivare contratti a termine lunghi e, soprattutto, la loro transizione verso il rapporto di lavoro stabile, tramite conversione. Anzi, nell’attuale stesura, il decreto favorisce i rapporti di lavoro a termine di durata inferiore all’anno. Ed è notoriamente in tale tipologia di rapporti che alligna la precarietà più eclatante e dura. Ricerche internazionali sulla precarietà ci dicono che non tutti i contratti e non tutti i rapporti di lavoro atipici generano gli stessi effetti di precarietà: tali ricerche considerano, per esempio, lo staff leasing e lo stesso contratto a termine lungo come rapporti se non stabili, meno precari di altri, il secondo soprattutto perché contiene alte probabilità di conversione.

Se si guarda alle regole introdotte per decreto, si evidenzia subito il paradosso di un provvedimento pensato per combattere la precarietà, ma che rischia, invece, di favorirla.

Basta, a comprovare tale conclusione, un semplice ragionamento di buon senso. Se nel corso di un rapporto fino a un anno, dovesse emergere l’esigenza di protrarlo oltre l’anno tale esigenza verrebbe penalizzata dal legislatore con un costo aggiuntivo. Come si dice tra gli addetti ai lavori, non viene rafforzato, anzi scoraggiato, il contratto psicologico.

Di più: coevamente si concretizza il rischio di stabilizzazione tranchant, imposta dal giudice; il meccanismo della causale non sancisce semplicemente l’abuso del contratto a termine, ma è anche uno strumento che aumenta il rischio, a carico dell’impresa, di conversione involontaria. Al contrario, l’impresa che volesse porre in essere strategie di utilizzo abusivo del contratto a termine, non avrebbe nulla da temere dalla legge: potrebbe far ruotare sulla medesima posizione di lavoro diversi lavoratori assunti con contratto a termine di durata inferiore all’anno anche di un solo giorno.

Una valutazione ragionevole degli interessi in gioco implicherebbe non di imporre ma di favorire la stabilizzazione dei rapporti a tempo determinato sul piano delle convenienze mediante un’incentivazione all’accettazione del rischio di investimento duraturo sulla risorsa umana con la quale il rapporto si è protratto oltre un termine congruo e durevole.

Una riforma del contratto a termine è opportuna. Ma la direzione della riforma dovrebbe essere di tutt’altro segno rispetto al decreto dignità.

Da qui la proposta. I contratti a termine brevi dovrebbero essere scoraggiati finanziariamente, più che con le causali: al di là dei contratti stagionali fino a un anno stabilmente reiterabili (per i quali i legislatore ha chiarito nell’ultima versione la sottrazione ad ogni vincolo di rinnovo), i contratti a termine brevi o brevissimi (di poche settimane o di pochi giorni), dovrebbero essere tendenzialmente sostituiti con il ripristino dei voucher che avevano dato buona prova soprattutto se dotati di meccanismi anti abuso: tracciabilità, attivazione del voucher prima della prestazione e maggiori ispezioni e controlli. I voucher, meno pesanti burocraticamente (non implicano il costo della busta paga), si sono rivelati più funzionali nel venir incontro alla domanda di lavori occasionali come alternativa al lavoro nero e sono senz’atro preferibili ai rapporti a termine brevi e brevissimi (anche nella forma a chiamata), comunque più costosi anche burocraticamente.

I contratti a termine lunghi oltre l’anno andrebbero invece promossi finanziariamente, al contrario di quel che prevede il decreto dignità, con incentivi economici progressivi in proporzione all’aumento della durata e con un super bonus specifico in termini di abbattimento del cuneo fiscale (interno alla regolazione del contratto a termine) in caso di conversione a tempo indeterminato. Il bonus/abbattimento/cuneo, in tal caso, dovrebbe essere permanente (e non temporaneo come negli schemi di incentivazione occupazionale generalisti) proprio per favorire e premiare il reciproco affidamento dei contraenti (il contratto psicologico) e lo stimolo potrebbe allargarsi anche a specifici investimenti formativi (rendendo meno generica l’attuale disposizione sulla formazione dei lavoratori a termine). Per esempio la stabilizzazione del bonus fiscale, con abbattimento durevole del cuneo potrebbe scattare dopo il primo anno di conversione a tempo indeterminato, con eventuale restituzione parziale o totale del finanziamento se il rapporto dovesse interrompersi entro l’anno dalla conversione.

Si tratta di uno schema di regolazione (ad affidamento crescente) del contratto a termine che tende a premiare e non a punire; che mira a corroborare e a favorire, quasi maieuticamente, l’elemento fiduciario e collaborativo nel rapporto di lavoro nella fase di industria 4.0.

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