Contrattazione

Il contratto collettivo non salva dal licenziamento per guida in stato di ebbrezza

di Angelo Zambelli

Sia il tribunale di Verona che la Corte d'appello di Venezia hanno dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato a un dipendente per aver guidato un automezzo aziendale in stato di ebrezza con un tasso alcolemico tale da costituire reato e per non aver tempestivamente informato la società in merito a quanto occorso.

La Corte d'appello, a fronte di vari addebiti tra loro connessi, ha attribuito rilevanza disciplinare alla sola guida in stato d'ebbrezza, dichiarando illegittimo il licenziamento in quanto il Ccnl applicato al rapporto di lavoro punisce «l'essere sotto l'effetto di sostanze alcoliche o di droghe all'atto di presentazione in servizio» con una mera sanzione conservativa.

L'articolo 18, quarto comma, dello statuto dei lavoratori sancisce che «il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi…della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento».

Il giudice, pertanto, accertata come prima cosa la sussistenza del fatto che ha determinato il licenziamento del lavoratore, ha il successivo obbligo di verificare se l'infrazione commessa dal dipendente sia punita dal contratto collettivo o dal codice disciplinare con una sanzione conservativa.

La Cassazione, con l'ordinanza 8582/2019, nell'accogliere il ricorso promosso dall'azienda, ha rilevato come la condotta accertata non potesse essere riconducibile alla sola ipotesi disciplinata dal contratto collettivo in quanto, nella fattispecie esaminata, non era stata contestata al dipendente semplicemente la guida in stato di ebrezza «ma piuttosto la guida di un mezzo aziendale con un tasso alcolemico pari a 2,32 g/l, condotta costituente reato ed oggetto, infatti, di decreto penale di condanna», comportamento, dunque, ben più grave rispetto a quello individuato nella norma contrattuale.

Con un interessante principio di diritto, la Corte ha infatti precisato che «il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta tipizzata dalle parti collettive postula l'integrale coincidenza tra la fattispecie contrattuale prevista e quella effettivamente realizzata, restando, per contro, impossibile procedere ad una tale operazione quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale, come nell'ipotesi di causa».

Tale principio risponde al consolidato insegnamento della Cassazione secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, deve escludersi «che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti» (Cassazione 2821/2017).

Se da un lato il percorso logico giuridico seguito dalla Suprema corte appare pienamente condivisibile, dall'altro emerge inevitabile la discrezionalità attribuita al giudice nell'effettuare la valutazione circa l'eventuale sussumibilità di una determinata condotta rispetto ai casi espressamente contemplati nei contratti collettivi, discrezionalità che, non a caso, il legislatore del Jobs act ha successivamente voluto limitare garantendo la reintegrazione in servizio, per quanto qui di interesse, «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».

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