Contrattazione

Il costo del lavoro si riduce, Italia più competitiva in Europa

di Davide Colombo e Claudio Tucci

Dopo l’esonero pieno e triennale sulle nuove assunzioni stabili datato 2015 - che ha rappresentato l’ultimo intervento taglia tasse sul lavoro di un certo peso - tra poco meno di un mese il costo del lavoro in Italia, nel frattempo risalito, tornerà un po’ a scendere.

Dal 1° luglio, infatti, scatterà l’incentivo previsto dal dl 3 dello scorso 5 febbraio (trattamento integrativo o detrazione fiscale a seconda della fascia di reddito) che renderà più pesanti (fino a 100 euro al mese) le buste paga, coinvolgendo una platea di circa 16 milioni di lavoratori dipendenti, tra privati e pubblici, con redditi fino a 40mila euro (si tratta di 4,3 milioni di persone in più rispetto agli 11,7 milioni che oggi percepiscono gli 80 euro introdotti dal governo Renzi).

Secondo una recente elaborazione del centro studi di Assolombarda sui dati 2019 dell’Ocse (gli ultimi disponibili), l’Italia, piano piano, e con tutte le cautele del caso, riducendo il costo del lavoro, sta tornando un po’ più “competitiva”.

Nel nostro paese il costo del lavoro si attesta in media a circa 42mila euro, intorno ai 22mila euro è la retribuzione netta, i restanti 20mila rappresentano gli oneri fiscali e previdenziali. In Germania, nostro principale paese competitor, il costo del lavoro è più alto, oltre 62mila euro, e anche la Francia ci supera, attestandosi a circa 50mila euro.

Nel nostro Paese il netto in busta corrispondente alla retribuzione media è di 21.618 euro, analogo, ad esempio, a quello della Spagna (21.646 euro): ma mentre in Spagna il costo del lavoro corrispondente non raggiunge i 36mila euro in Italia sfiora i 42mila, con un differenziale di oltre il 16 per cento. Negli Stati Uniti il costo del lavoro è di 55.140 euro; in Giappone di 49.404 euro (non è noto il dato della Cina che non rientra in questa indagine dell’Ocse). Perfino Belgio e Austria, proseguendo con gli esempi, presentano un costo del lavoro medio più elevato dell’Italia, rispettivamente, 63.010 euro l’anno e 62.069 euro.

Con il dl 3 in Italia aumenterà un po’ il netto in busta paga (si superano i 22mila euro), riducendosi, di un altro po’, al tempo stesso, gli oneri a carico delle imprese.

L’impatto del dl 3, prosegue la simulazione del centro studi di Assolombarda, si vede anche sul cuneo fiscale, che misura invece la differenza tra costo del lavoro per il datore e la retribuzione netta del lavoratore. In Italia è del 48%; una percentuale (comunque elevata) composta per il 16,8% di imposte personali sul reddito e per 31,2% di contributi previdenziali che ricadono in parte sul lavoratore (7,2%) e in parte sul datore di lavoro (24,0%). Il cuneo fiscale, per effetto appunto del dl 3, scenderà dal 48% al 46,7% (su una retribuzione annua “media” pari a 31.602 euro); anche qui, un altro piccolo passo avanti, che in questa fase di ripartenza potrebbe dare una spinta alla produzione.

La Germania ha un cuneo fiscale più elevato del nostro, 49,4%; la Francia è lievemente sotto, 46,7%, ma con la riduzione stimata dal centro studi di Assolombarda per effetto del dl 3, e se Parigi non fa nulla, la agganciamo.

Ecco allora, oggi, la necessità di non fermarsi nell’operazione “taglia-tasse”: anche perché, come ripetono da tempo esperti ed economisti, una struttura imprenditoriale come quella italiana, prevalentemente manifatturiera, trae un netto vantaggio dall’aumento della forza lavoro conseguente a un abbassamento dei costi legati al fattore lavoro. In altre parole, un cuneo minore spinge maggiori impieghi, e porta a un recupero di competitività in termini di attrazione degli investimenti. La strada, obbligata, che adesso è chiamata a intraprendere l’Italia.

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