Previdenza

Nessun obbligo contributivo per i conviventi di fatto del titolare artigiano o commerciante

di Antonio Carlo Scacco

A carico dei conviventi di fatto dei titolari artigiani e commercianti non sussistono gli obblighi contributivi previsti dalle relative gestioni autonome, anche se destinatari di eventuali utili d'impresa in base al nuovo articolo 230-ter del codice civile: lo precisa l'Inps nella circolare 31 marzo 2017, numero 66.

La legge 76/2016 ha introdotto una regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze di fatto, definendo le prime come una specifica formazione sociale a rilevanza costituzionale (articoli 2 e 3 della Costituzione) costituite da due persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni, le seconde come una unione stabile tra due persone maggiorenni, legate da vincoli affettivi e di assistenza reciproca.

Mentre per l'unione civile la legge dispone una completa equiparazione, ai fini normativi e regolamentari, con il rapporto di coniugio (ogni disposizione del codice civile richiamata dalla legge 76/2016, che contenga la parola "coniuge" deve intendersi riferita anche ad ognuna delle parti dell'unione civile), la nuova normativa non adotta la medesima equiparazione per i conviventi di fatto, pur estendendo ad essi alcune espresse tutele riservate al coniuge (ad esempio in materia sanitaria ed abitativa).

Ne segue che, sotto il profilo previdenziale, alle unioni civili si estende la regola secondo cui la assicurazione previdenziale prevista per il titolare artigiano o commerciante si estende al coniuge in qualità di familiare coadiuvante (sono definiti tali il coniuge, i figli legittimi o legittimati e i nipoti in linea diretta, gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, che partecipano al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, sempreché per tale attività non siano soggetti all'assicurazione generale obbligatoria in qualità di lavoratori dipendenti o apprendisti).

Non si estende invece al convivente di fatto il quale, non essendo - come si è detto – equiparato al coniuge, neanche possiede lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare. Discorso analogo vale per la impresa familiare.

Mentre al soggetto unito civilmente si applicano, in quanto equiparato al coniuge, tutti i diritti ed obblighi previsti dalle norme civilistiche in materia di impresa familiare (articoli 230 e seguenti) analoga applicazione non interessa il convivente di fatto. Infatti nonostante il nuovo articolo 230-ter attribuisca a quest'ultimo, ove presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente, il diritto di partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, tale disposizione non può essere letta come una equiparazione allo status di familiare. Infatti, si legge nella nota, differentemente il legislatore non avrebbe «introdotto […] un nuovo articolo, che disciplina separatamente i diritti del convivente che presti attività in un'impresa familiare».

In ogni caso, conclude l'lnps, a seguito delle necessarie istruzioni che saranno emanate dall'agenzia delle Entrate per la regolamentazione degli aspetti fiscali, l'istituto si riserva di procedere ai necessari approfondimenti.

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