Previdenza

Istat: dal 2019 età pensionabile a 67 anni

di Davide Colombo

Sulla base degli scenari demografici Istat i requisiti per la pensione di vecchiaia saliranno di cinque mesi nel 2019, passando dagli attuali 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto di statistica, Giorgio Alleva, nel corso di un’audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera dove sono all’esame due disegni di legge di modifica dell’articolo 38 della Costituzione nella prospettiva di una maggiore equità del nostro sistema previdenziale. Istat è coinvolta formalmente nel processo amministrativo con cui vengono aggiornati su base triennale (biennale dal 2021 in avanti) i due stabilizzatori automatici della nostra spesa pensionistica: i coefficienti di trasformazione del montante contributivo e l’adeguamento dei requisiti di pensionamento sulla base della variazione su media triennale della speranza di vita a 65 anni. I prossimi parametri demografici ed econometrici verranno ufficilizzati dopo l’estate, in modo da permettere al ministero dell’Economia e a quello del Lavoro di varare i decreti attuativi. Le affermazioni di Alleva giungono nel pieno un’operazione politico-sindacale volta a sospendere (o ripensare) questo adeguamento automatico, un’opzione che potrebbe anche orientare l’esito del confronto aperto tra governo e sindacati per la traduzione in norme degli obiettivi fissati nella cosiddetta “fase due” del Verbale d’intesa sulle pensioni siglato l’anno passato. Due giorni fa il presidente dell’Inps, Tito Boeri, s’era detto contrario al superamento di questo adeguamento automatico senza il quale la spesa pensionistica tornerebbe a salire pesando sulle spalle delle generazioni future.

Secondo lo scenario offerto ieri da Alleva, dal 2021 il requisito per la pensione di vecchiaia salirebbe di altri tre mesi, mentre con i successivi adeguamenti, dal 2023, si salirebbe di due mesi ogni due anni. Una traiettoria destinata a portare le nuove età di pensionamento a 68 anni e 1 mese dal 2031, 68 anni e 11 mesi dal 2014 e a 69 anni e 9 mesi dal 2051.

La transizione demografica tracciata da Alleva prevede nei prossimi trent’anni un aumento dell’incidenza della popolazione anziana, che arriverebbe al 34% nel 2051, anno in cui la popolazione in età da lavoro si collocherebbe attorno al 54%. A causa della denatalità la popolazione scenderebbe dai 60,7 milioni del 2016 a 58,6 tra il 2025 e il 2045, e scenderebbe di altri 4,9 milioni tra il 2045 e il 2065. Un contributo determinate alla tenuta del quadro demografico - ha poi aggiunto Allevi - verrà dai flussi migratori, anche se sono i più difficili da stimare. Da qui al 2065 arriverebbero in Italia 14,4 milioni di persone. Di contro gli emigranti verso l’estero sono stimati in 6,7 milioni. Il saldo sarebbe, pertanto, positivo: «da un valore iniziale di +135mila unità nel 2016 a un massimo di +162mila nel 2035, cui seguirebbe una continua e regolare flessione fino al livello di +139mila nel 2065» ha enumerato Alleva.

Nell’audizione sono stati affrontati altri due temi: il costo del sistema di protezione sociale e il lavoro atipico dei più giovani. Pur avendo un livello di spesa pensionistica tra i più elevati, il sistema italiano è stato messo in sicurezza con le riforme degli ultimi vent’anni: «è tra quelli finanziariamente più sostenibili in Europa» ha detto il presidente dell’Istat, secondo il quale la curva calerà di due punti percentuali di Pil entro il 2060. Negli ultimi anni della crisi, tuttavia, tra il 2012 e il 2016, le entrate contributive sono scese: dal 48,2 al 46,5%. Poi Alleva ha parlato dell’occupazione atipica, destinata a produrre in prospettiva pensioni più deboli. «L’occupazione atipica al primo lavoro è diffusa anche per titoli di studio secondari superiori o universitari e cresce all’aumentare del titolo di studio, essendo pari al 21,2% per chi ha concluso la scuola dell’obbligo e al 35,4% per chi ha conseguito un titolo di studio universitario» ha affermato Giorgio Alleva. Insomma, almeno all’inizio della carriera, il lavoro precario interessa più i laureati, ovvero chi ha studiato di più.

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