Previdenza

Crisi d’impresa, quando i lavoratori si riprendono l’azienda e la fanno ripartire

di Ilaria Vesentini

I circa 300 workers buyout che negli ultimi trent’anni hanno permesso di salvare 15mila posti di lavoro, nonché saperi e mestieri di altrettante aziende a rischio chiusura, rinate sotto la guida di dipendenti che hanno avuto il coraggio di diventare soci imprenditori, sono un fenomeno tipicamente italiano (a dispetto del modello e del nome importato da oltreoceano) che diversi Paesi del Mediterraneo stanno studiando e imitando. Ma sono exit strategy che per quanto istituzionalizzate dalla legge Marcora (la 49/85 per finanziare nuove cooperative tramite le indennità di disoccupazione, norma poi rivista nel 2001 per aggirare i problemi legati agli aiuti di Stato) e per quanto siano a costo zero per la collettività, faticano a uscire dalla dimensione di nicchia e a diventare strumento condiviso e diffuso di politica economica e sindacale per reagire all’acuirsi delle débâcle aziendali.

Se ad aprire la strada dei Wbo fu nel 1986 il crac di Richard Ginori, sono molte le storie di successo e di rivincita emerse in questi anni dalle ceneri di società di capitali al lastrico – tra procedure concorsuali, falliti passaggi generazionali, asset confiscati alle mafie – che nella formula cooperativa tra gli ex dipendenti hanno trovato la strada per mantenere accesi gli impianti, crescere e innovare, in tutti i settori. Storie non solo di Pmi familiari storiche, come la marchigiana Desi Srl specializzata in cucine componibili rinata come coop nel 2016; ma anche di multinazionali come la Italcables di Caivano, abbandonata dalla casamadre portoghese e salvata da 50 dipendenti, o della Fenix Pharma di Roma, che gli americani avevano deciso di cancellare dalla mappa geografica e che 40 tra ex manager e tecnici hanno rimesso sul mercato, raddoppiando in un lustro il business.

L’esperienza racconta inoltre che le realtà acquistate dai lavoratori-soci grazie all’anticipo dell’indennità di disoccupazione, alle liquidazioni e al supporto dell’investitore istituzionale Cfi (Cooperazione Finanza impresa, partecipata dal Mise) sono non solo un buon investimento per lo Stato, ma hanno anche basse percentuali di fallimento, inferiori al 15% a dieci anni, contro il dato del 70% per le start-up vere e proprie.

«Al di là della dimensione economica e della salvaguardia di posti di lavoro e di competenze, ci sono effetti sociali e politici dei Wbo da non sottovalutare. Perché un lavoratore licenziato costa mediamente allo Stato dai 30 ai 40mila euro di ammortizzatori sociali, soldi a fondo perduto. Con la legge Marcora invece i lavoratori non finiscono in Cig, non perdono autostima e dignità, i contributi diventano capitale e la società rigenerata continua a versare contributi previdenziali, Irpef, Iva, con un saldo largamente attivo per la collettività. Con un investimento di 40 milioni di euro il Governo potrebbe riattivare oltre mille posti di lavoro e nel giro di un paio d’anni rientrerebbe della finanza erogata», spiega Maurizio De Santis, che ha da poco passato il testimone di responsabile nazionale delle cooperative industriali di Legacoop Produzione e Servizi ma continua a occuparsi di Wbo, di cui è considerato il massimo esperto sul campo in Italia (sono nate su sua spinta una cinquantina di nuove coop di lavoratori di aziende in crisi).

Ci sono poi Wbo che sfuggono alle rilevazioni perché non attingono al Cfi e a Coopfond (il fondo di sviluppo del sistema cooperativo), ma si stima non arrivino al 20% dei casi monitorati ufficialmente. La dimensione media dell’impresa rigenerata, che nella maggior parte dei casi riavvia la medesima produzione e riparte dagli stessi mercati tradizionali, è di una ventina di addetti, 3 milioni di fatturato e un capitale sociale di 300mila euro. «Abbiamo avviato da poco uno studio per analizzare le principali caratteristiche del fenomeno dei Wbo in Italia e i fattori che ne favoriscono lo sviluppo, vogliamo capire i modelli di governance, l’impatto degli investimenti effettuali, l’efficacia degli strumenti pubblici, con lo scopo ultimo di diffondere l’esperienza, segnalando ai policy maker nuovi ed efficaci modelli di azione privata-pubblica», spiega l’economista Flavia Terribile, presidente del Comitato per le politiche di sviluppo regionale dell’Ocse, alla guida del gruppo di lavoro sulle imprese rigenerate in seno al Forum Disuguaglianze e Diversità.

«I Wbo si stanno dimostrando una risposta molto efficace e flessibile in tutte quelle situazioni dove il capitale privato difficilmente interviene, perché non incoraggiato dalla modesta redditività, mentre la struttura cooperativa guarda alla creazione del reddito per retribuire, in primo luogo, il lavoro. Quindi, in caso di Pmi in crisi per errori gestionali e finanziari e per passaggi generazionali difficili», rimarca De Santis. E sollecita l’intervento del Governo per sostenere i Wbo: «Anche per il reddito di cittadinanza si può immaginare un meccanismo simile a quello dell’anticipazione della Naspi – conclude De Santis – per farlo diventare uno strumento di politica attiva del lavoro che lega insieme funzione economica e impegno civico e sociale. E occorre individuare sul piano legislativo procedure per far emergere in modo tempestivo i casi di imprese in difficoltà, coinvolgendo i dipendenti. Nei prossimi cinque anni si stima saranno migliaia le imprese italiane in questa situazione e il rischio occupazionale è elevatissimo».

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