Previdenza

Quel tesoretto per l’occupabilità

di Claudio Tucci

I modelli di business delle imprese cambiano rapidamente, anche sotto la spinta di Industria 4.0; e ci sono competenze, specie in alcuni settori produttivi, come la manifattura, i servizi all’industria e il terziario avanzato, solo per fare degli esempi, che in pochi anni diventano “obsolete”, e necessitano, quindi, di un “aggiornamento”. Per questo la formazione continua dei lavoratori è un asset strategico; le risorse ci sono e si spendono, andrebbero semmai implementate (magari accompagnate da politiche fiscali di vantaggio); e occorre coinvolgere di più e meglio le aziende, specie le più piccole. Sul piatto ci sono le somme Miur-Mise per ricerca e sviluppo; e quelle, ormai strutturali, messe in campo dalla bilateralità attraverso i fondi interprofessionali.

Secondo gli ultimi numeri, elaboratori dall’Anpal: su circa 6 milioni di partite Iva attive alle camere di commercio circa 958mila risultano iscritte a uno dei 19 fondi interprofessionali esistenti in Italia, a fronte dell’obbligo, generalizzato, di versare il contributo dello 0,30% del monte salari e stipendi, ormai passato a 0,19% per via dello “scippo” operato qualche anno fa di 120 milioni di euro annui (dirottati alla fiscalità generale). E così non sorprende come la percentuale di lavoratori che fanno formazione continua, da noi, si attesti all’8,3%, contro una media Ue di quasi il doppio, vale a dire intorno al 13 per cento.

Lo 0,30%, destinato alla formazione, vale circa un miliardo di euro, (l’inoptato è in continua discesa, attualmente viaggia intorno ai 180 milioni). Sia che l’impresa (aderente) attinga direttamente ai vari “conti formazione” sia che invece risponda ai bandi, il tiraggio è pressoché totale (anzi, semmai, le risorse a disposizione sono insufficienti a soddisfare la crescente richiesta di formazione).

«Negli anni infatti è aumentata la sensibilità delle aziende a destinare le risorse ai fondi - sottolinea Pierangelo Albini, direttore dell’area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria, che assieme a Cgil, Cisl, Uil hanno dato vita al principale fondo interprofessionale, Fondimpresa (associa oltre 180mila aziende e 4,5 milioni di lavoratori) -. Oggi i fondi rappresentano uno strumento formidabile per la formazione dei lavoratori. Ma, proprio per la loro duttilità e flessibilità, possono giocare un ruolo importante anche nelle politiche attive, magari facendo leva pure su risorse aggiuntive versate direttamente dalle imprese, a cui l’Erario potrebbe riservare un trattamento fiscale agevolato».

Certo, bisogna creare un link più solido con le Pmi: «Qui si sconta la scarsa conoscenza dello strumento - sottolinea Roberto Santori, presidente della sezione Consulenza, attività professionali e formazione di Unindustria -. Per quanto riguarda gli avvisi, poi, molte aziende trovano difficoltà, anche in termini di tempo, a partecipare a causa di tecnicismi e procedure». Un ruolo - vissuto da alcuni imprenditori come freno - è giocato pure dalla dimensione di impresa: per un lavoratore l’accantonamento annuo vale, in media, circa 80/90 euro, e per aziende con pochissimi dipendenti lo sforzo formativo non vale la candela.

Il tema, tuttavia, è strategico; ed è stato oggetto di una giornata di studio, intitolata «Hr Trends, il futuro della formazione e della consulenza», promossa nei giorni scorsi, a Roma, da Unindustria, proprio mentre ieri, in parlamento, è arrivata, in extremis, la proroga di un anno e in versione light delle agevolazioni per la formazione 4.0.

Le parti sociali spingono, da tempo, per una maggiore valorizzazione dei fondi interprofessionali legati a pmi e territori, attraverso un ampio piano di semplificazione e innovazione. A febbraio, alle Assise di Confindustria, il presidente di Fondimpresa, Bruno Scuotto, aveva proprio toccato questi tasti, auspicando, oltre a regole più snelle, «un rapporto diretto con Anpal e una spinta sulla formazione 4.0 che sfrutti al meglio le nuove tecnologie e le nuove modalità di somministrazione».

Sono trascorsi quasi 10 mesi dall’appello, e la situazione non è cambiata. «Un peccato - avverte Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Bocconi di Milano e numero uno di Anpal - considerato che oggi i fondi interprofessionali potrebbero, effettivamente, avere un ruolo attivo nelle politiche attive. Penso, per esempio, alla gestione delle crisi aziendali, investendo risorse nel capitale umano, riqualificando i lavoratori e intere filiere produttive, in vista di una loro futura ricollocazione».

«Non c’è dubbio che rispetto al passato la situazione sia migliorata - sottolinea Andrea Cafà, presidente di Fonarcom (160mila aziende aderenti e 1,1 milioni di lavoratori) -. Prima tra avvisi, condivisione dei piani, approvazioni, ricorsi, le Regioni approvavano i piani formativi, nella migliore delle ipotesi, in 8-9 mesi e a quel punto le esigenze formative erano cambiate. Oggi i piani formativi si approvano anche in 20 giorni. Certo, serve coinvolgere di più le pmi. Noi puntiamo su voucher individuali e assistenza specifica». Il punto è che le imprese, specie le più piccole, «non conoscono i fondi interprofessionali - concorda Paolo Arena, presidente di For.Te (126mila aziende aderenti, 1,2 milioni di lavoratori) -. Serve quindi maggiore promozione, anche perché le risorse, poi, vengono tutte spese».

La fotografia dei fondi interprofessionali

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