Previdenza

Reddito di cittadinanza, per i ricorsi degli stranieri la strada è in discesa

di Enrico Traversa

L’articolo 2 del Dl 4/19, convertito con legge 26/19, individua i beneficiari del reddito di cittadinanza (Rdc) sulla base di tre requisiti, dei quali il primo consta in realtà di due distinti requisiti attinenti, l’uno, alla cittadinanza del «componente (del nucleo familiare) richiedente il beneficio» e l’altro, alla durata della sua residenza in Italia.

Per quanto riguarda il requisito della cittadinanza, oltre agli italiani, possono richiedere il Rdc i cittadini di uno Stato Ue, compresi i loro familiari, e i cittadini di Paesi terzi in possesso di un «permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo» disciplinato dalla direttiva Ue 2003/109. I due requisiti sono cumulativi e pertanto si applica a tutti i richiedenti il Rdc anche una condizione di residenza in Italia «da almeno dieci anni…di cui gli ultimi due anni in modo continuativo». Questa condizione appare tuttavia in radicale contrasto sia con varie norme Ue sia con la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue.

Le norme Ue violate sono, in primis, gli articoli 18 e 45 del Trattato Ue, in particolare l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento Ue 492/11 relativo alla libera circolazione dei lavoratori, che impone la parità di trattamento in materia di «vantaggi sociali» fra lavoratori nazionali e di altri Stati membri. Nella sua costante giurisprudenza, la Corte Ue ha invece equiparato una discriminazione indiretta fondata sulla residenza a una diretta fondata sulla nazionalità, con questo ragionamento: «una normativa nazionale la quale preveda una distinzione basata sulla residenza rischia di operare principalmente a danno dei cittadini degli altri Stati membri. Infatti il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (sentenza C-224/97, punto 14). Applicando tale principio interpretativo all’articolo 2 del Dl 4/19, risulta evidente che il requisito della residenza in Italia da almeno dieci anni, opera a danno dei lavoratori di altri Stati membri stabiliti in Italia da meno di dieci anni e a danno delle loro famiglie, mentre l’immensa maggioranza degli italiani potrà attestare una residenza da almeno dieci anni. A questa giurisprudenza deve poi aggiungersi quella con la quale la Corte Ue ha ricompreso nel concetto di «vantaggi sociali» che devono obbligatoriamente essere concessi anche ai lavoratori di altri Stati membri ex articolo 7, paragrafo 2, del regolamento 492/01 sulla libera circolazione dei lavoratori, anche le prestazioni di assistenza sociale previste in varie legislazioni di Stati Ue, comparabili dal Rdc, come il “Minimex” belga (sentenze 249/83 e 122/84). Sotto il profilo del diritto alla parità di trattamento con gli italiani residenti, vanno poi assimilati ai lavoratori di altri Stati Ue anche gli italiani che rientrano in Italia dopo un periodo lavoro in un altro Stato Ue (sentenza C-370/90).

Pur essendo italiani, risulteranno anch’essi discriminati rispetto all’accesso al Rdc. Illegittimamente discriminati dalla condizione di residenza di almeno dieci anni in Italia, sono anche i cittadini di Stati terzi che beneficiano di una specifica tutela sulla base della legislazione dell’Unione. Si tratta degli stranieri extra-Ue «soggiornanti di lungo periodo» che possono acquisire un diritto permanente di soggiorno in uno Stato Ue dopo aver risieduto per cinque anni nello Stato membro di accoglienza, in questo caso l’Italia (articolo 4 direttiva Ue 2003/109).

In forza dell’articolo 11, paragrafo 1.d), della direttiva, questi cittadini di Paesi terzi hanno anch’essi un diritto alla parità di trattamento rispetto agli italiani per quanto riguarda «le prestazioni sociali e l’assistenza sociale» (sentenza Corte Ue C-571/10, su rinvio pregiudiziale del tribunale di Bolzano). Ne consegue che il Rdc non potrà essere loro negato qualora il solo motivo del rifiuto sia un periodo di residenza in Italia compreso fra i cinque e i dieci anni. Il Dl 4/19 ha poi «dimenticato» i titolari dello «status di rifugiato» disciplinato dalla direttiva Ue 2011/95. L’articolo 29 della direttiva impone infatti a tutti gli Stati Ue di assicurare ai beneficiari di protezione internazionale un’«adeguata assistenza sociale» a parità di condizioni con i cittadini dello Stato Ue che ha accordato tale status (sentenza C-443/16) e quindi a prescindere da qualsiasi condizione di residenza in Italia.

In conclusione, ciascun richiedente il Rdc al quale verrà notificato un rifiuto del Rdc stesso fondato sull’assenza del requisito della residenza, e che appartiene a una delle tre categorie sopra indicate, potrà impugnare tale atto dinanzi al Tribunale del lavoro competente per territorio.

Più saranno i tribunali italiani aditi con impugnazioni degli atti di rifiuto del Rdc e maggiori saranno le probabilità che uno di essi rinvii alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale di interpretazione dell’articolo 7.2 del regolamento 492/11 «lavoratori Ue» o delle disposizioni rilevanti di una delle due direttive «Paesi terzi». L’esito di un processo pregiudiziale dinanzi alla Corte Ue appare, visti i precedenti, scontato. L’articolo 2.1.a) del Dl 4/19 sarebbe dichiarato inapplicabile in quanto contrario al diritto europeo con effetto, sia per il futuro, con diritto all’erogazione del Rdc, sia retroattivo, con pagamento ex post di tutte le mensilità di Rdc ingiustamente negate.

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