Previdenza

Quota 100 travolge l’Ape volontario. Più assegni a scapito dei conti

di Matteo Prioschi

Da aprile 2018 a giugno 2019 sono state presentate 31.308 domande per l’anticipo pensionistico (Ape) volontario e solo 6.861 cittadini hanno poi effettivamente utilizzato questo strumento. Invece da gennaio a giugno 2019, le domande per il pensionamento con Quota 100 sono state 154.114, quelle accolte 94.777 (senza considerare i dipendenti pubblici la cui prima decorrenza utile era ad agosto).

I numeri contenuti nell’allegato al rendiconto sociale Inps, presentato il 5 novembre, dicono che Quota 100 batte Ape volontario 15 a 1, quanto a prestazioni effettivamente erogate. Salvo modifiche normative, la prima sarà disponibile fino al 2021, la seconda sparirà a dicembre.

Le due opzioni, introdotte per contrastare la rigidità dei requisiti per il pensionamento determinata dalla riforma di fine 2011, hanno caratteristiche diverse ma si rivolgono in buona parte alla stessa platea.

L’Ape volontario, semplificando, è un finanziamento con cui un cittadino riceve un assegno ponte da quando smette di lavorare fino all’età della pensione di vecchiaia (oggi 67 anni). Finanziamento che va poi restituito con rate mensili trattenute sulla pensione per 20 anni. Il costo dell’operazione, che grava sul beneficiario, è mitigato da un credito di imposta. All’Ape volontario si accede con almeno 20 anni di contributi e almeno 63 di età (poi diventati 63 anni e 5 mesi per l’adeguamento alla speranza di vita). Mentre si riceve l’assegno ponte si può continuare a lavorare, anche part time.

Quota 100 è una forma di pensionamento anticipato, a cui si accede con almeno 38 anni di contributi e 62 di età. Fino a quando si raggiungono i requisiti della pensione ordinaria, si possono solo svolgere attività di lavoro occasionale fino a 5mila euro all’anno.

Tra chi ha chiesto l’Ape, il 40,8% aveva meno di 64 anni, il 57,4% tra 64 e 66 anni, residuale è la quota degli over 66. Delle domande dei “quotisti”, il 48,2% riguardava individui con meno di 64 anni, mentre il 51,8% aveva tra 64 e 66 anni.

Decidendo di andare in pensione con Quota 100 si ottiene un assegno inferiore del 4-5% lordo per ogni anno di anticipo rispetto a quella che si avrebbe a 67 anni (età di vecchiaia) o con 42 anni e 10 mesi di contributi (pensione anticipata, ottenibile con 41 anni e 10 mesi per le donne). Quindi, per esempio, a 63 anni si “rinuncerebbe” al 16-20% dell’importo erogabile a 67 anni se nel frattempo si continuasse a lavorare e versare i contributi.

Una conseguenza in parte analoga si avrebbe con l’Ape volontario. Ipotizzando di smettere di versare i contributi a 63 anni, la pensione verrebbe calcolata con il coefficiente di conversione dei 67 anni (quindi l’importo sarebbe un po’ più alto che a 63) ma su questo importo poi graverebbe il costo del finanziamento, che secondo le elaborazioni governative del tempo sarebbe pari al 4,6% della pensione netta per ogni anno di anticipo. Dunque l’Ape volontario determina una penalizzazione maggiore sull’importo della pensione rispetto a Quota 100, seppur non elevatissima, e soprattutto potrebbe essere in parte compensata con un impiego part time durante l’anticipo.

Opzione, quest’ultima, probabilmente scartata a priori da quel 25% di “quotisti” che nell’anno prima della pensione ha dichiarato reddito zero o inferiore a 8.700 euro.

Sul fronte dei conti pubblici, invece, le conseguenze sono nettamente diverse. In base al rendiconto sociale, le quasi 95mila domande accolte al 30 giugno scorso comportano una spesa media pro capite di 48.301 euro, dall’ingresso a Quota 100 fino alla maturazione della pensione standard, per un totale di 4,5 miliardi di euro. Per l’Ape volontario il rendiconto non riporta cifre, ma in fase di messa a punto era stata stimata una spesa di 342 milioni di euro nei primi dieci anni a fronte di 300mila adesioni.

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