Previdenza

Sì all’Rdc con condanna, no con misura cautelare

di Matteo Prioschi

Nei confronti di due cittadini è stata emessa una misura cautelare a fronte dei reati, tra gli altri, di furto e spaccio di droga. Poiché uno stava incassando il reddito di cittadinanza e l’altro lo aveva richiesto, in base all’articolo 7 ter del Dl 4/2019, istitutivo del Rdc, sarebbe dovuta scattare la sospensione dell’assegno.

Nel recente passato il governo ha sottolineato la presenza di regole per contrastare abusi ed evitare di dare il reddito a chi si è macchiato di reati gravi e, in particolare, l’articolo 7 ter è stato aggiunto appositamente in fase di conversione del decreto, con effetti che però ora sembrano lontani dalle intenzioni.

Nell’applicare la legge, infatti, al giudice è balzata agli occhi un’anomalia. Secondo l’articolo 7 ter, la sospensione del Rdc scatta nei confronti di chi è soggetto all’applicazione di una misura cautelare personale, nonché del condannato con sentenza non definitiva per i delitti indicati dall’articolo 7, comma 3, dello stesso decreto legge. Questi ultimi consistono nel fornire informazioni false per ottenere il Rdc, nonché terrorismo, sequestro per terrorismo, attentato al Capo dello Stato, mafia, strage, truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche.

Tuttavia, «interpretando letteralmente la norma» ne consegue che il reddito o la pensione di cittadinanza vengono sospesi a chi è soggetto a misura cautelare per reati diversi da quelli indicati dall’articolo 7 comma 3, mentre se la stessa persona per gli stessi reati è condannata con sentenza non definitiva, la sospensione non scatta. Cioè la misura cautelare, per qualunque motivo valido, sospende il reddito, mentre solo alcune condanne hanno lo stesso effetto.

Per questa ragione il giudice ha sollevato la questione di legittimità costituzionale con un’ordinanza datata 6 settembre 2019 in cui si legge che «la disposizione di cui all’articolo 7 ter, comma 1...è da ritenersi illogica ed irragionevole e, dunque, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione», in quanto determina una violazione del principio di ragionevolezza e uguaglianza.

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