Previdenza

Pensioni, verso lo slittamento della nuova clausola sul Pil

di Davide Colombo e Marco Rogari

L’appuntamento con la nuova clausola anti-recessione per le pensioni è destinato ad essere rimandato almeno di un anno. I costi non trascurabili dell’intervento annunciato nei giorni scorsi dalla ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, che al lordo degli effetti fiscali potrebbero arrivare fino a 2,5-3 miliardi nel 2023 (per poi salire negli anni successivi), e le valutazioni sul meccanismo di salvaguardia già in vigore dal 2015, che resterà in ogni caso ancora in funzione per il prossimo anno, hanno aperto una discussione tra i tecnici del Governo. Un confronto che, a meno di ripensamenti, dovrebbe portare a un sostanziale congelamento della misura immaginata da Catalfo (e garantita ai sindacati nell’ultimo round sulla previdenza) per sterilizzare in via permanente gli effetti negativi della caduta del Pil sulla rivalutazione del montante contributivo, agendo già sul testo finale della legge di bilancio, atteso in Parlamento tra fine ottobre e inizio novembre.

A parere di molti esperti del governo, a cominciare da quelli del Mef, il problema dell’impatto della recessione sugli assegni pensionistici non si porrebbe prima del 2022 (e neppure con certezza). Perché l’attuale salvaguardia non eviterebbe la “penalizzazione” ma la rinvierebbe comunque sotto forma di decurtazione delle rivalutazioni positive degli anni successivi a partire dal 2023, visto che chi andrà in pensione nel 2022 non farebbe di fatto in tempo a subire “penalizzazioni”. Nessuna necessità di agire subito, quindi. E il rinvio eviterebbe anche di mettere in allarme a Bruxelles, sempre vigile sull’andamento della nostra spesa pensionistica .

Secondo i tecnici del governo, attualmente la norma del 2015 (legge 109 di conversione del dl 65), che prevede la salvaguardia da un effetto recessione sul coefficiente di rivalutazione del montante contributivo, sarebbe dunque valida anche per i pensionati che usciranno dal mercato del lavoro nel 2021. Il provvedimento era stato adottato dall'Esecutivo Renzi in vista di una media quinquennale negativa che si sarebbe determinata sull’anno 2015 (-0,2% in termini nominali; -0,4% in termini reali) a seguito della seconda recessione innescata dalla crisi dei debiti sovrani del 2011-2012. Si fissò pari a uno il tasso annuo di capitalizzazione in caso di valore negativo dell’indice alla base del meccanismo di valorizzazione dei montanti contributivi e, per conseguenza, delle pensioni, che è in vigore dalla riforma Dini (legge 335/1995). Dopo l’introduzione della moneta unica, il Pil quinquennale è andato in negativo solo nel 2015 in termini nominali, ovvero quelli validi per il calcolo contributivo, mentre in termini reali, al netto del deflatore, l’episodio si è verificato cinque volte: dal 2012 al 2015 e poi nel 2018.

L'ipotesi di spostare il momento della “messa a regime” di questa salvaguardia alla manovra 2022, determinerebbe una coincidenza con le nuove misure di flessibilità allo studio per il dopo “Quota 100”, in vigore fino al 2021. Mentre per il requisito di “vecchiaia” dal 1° gennaio 2021 e fino a tutto il 2022 la soglia rimarrà invariata a 67 anni, sulla base delle stime sulla speranza di vita comunicate da Istat al ministero del Lavoro lo scorso anno. Anche su questo parametro nel 2017 sono state introdotti ritocchi al criterio di calcolo per superare la “turbolenza statistica” determinata dall’eccesso di mortalità registrata nel 2015.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©