Previdenza

L’incognita Covid sul tavolo pensioni

di Davide Colombo e Marco Rogari

La nuova riforma delle pensioni, rimandata al prossimo anno per trovare una soluzione al dopo Quota 100, dovrà fare i conti con la pesante eredità della crisi sanitaria. E il rischio di dover rispondere a esigenze contingenti di gestione di lavoratori in esubero potrebbe far perdere la prospettiva di una soluzione «di sistema». Ai primi di ottobre i “quotisti” che hanno ottenuto la pensione con i requisiti minimi di 62 anni e 38 di contributi erano 242.361. Il dato comprende tutte le domande accolte dall’inizio del 2019. Il governo ne aveva previsti almeno 300mila l’anno per tutto il triennio di sperimentazione, che si chiude nel 2021. Negli ultimi quattro mesi sono state riconosciute anche 55mila nuove pensioni anticipate con i requisiti di 42 anni e 10 mesi di contribuzione (41 + 10 per le donne) sganciati dall'aspettativa di vita. Con questo secondo canale di uscita agevolata, attualmente destinato a rimanere tale fino al 2026, si sono pensionati finora 241.820 persone ed è prevedibile che a fine anno risulterà il più utilizzato tra quelli resi disponibili con la cosiddetta riforma del governo “Conte 1”. Ma dalla primavera prossima, quando si spera la pandemia sia passata e soprattutto scaduto il termine di sospensione dei licenziamenti (si stima ne siano stati bloccati 600mila), le cose potrebbero cambiare. Nella seconda metà del 2021 è possibile che “Quota 100” torni a essere opzionata da molti, visto che le posizioni in esubero potrebbero arrivare ad almeno un milione di addetti alle dipendenze con contratti standard o a tempo determinato. E nell’atteso ciclo di ristrutturazioni aziendali nei diversi settori della manifattura e soprattutto dei servizi tutti i canali di pensionamento agevolato torneranno utili.

In questo contesto si riaprirà il tavolo della riforma, con il primo scoglio dei conti da superare. Non a caso almeno due delle tre ipotesi abbozzate nelle scorse settimane puntano ad assorbire non più di 3,5 miliardi, massimo 4, ovvero meno della metà dei circa 8 miliardi l’anno stanziati per le uscite anticipate volute dal vecchio governo gialloverde. La prima prevede la possibilità di pensionamento con almeno 64 anni d’età e 38 di contributi e con il calcolo contributivo degli anni di anticipo rispetto alla soglia di vecchiaia dei 67 anni. Con la seconda opzione l’età scenderebbe a 62-63 anni con il ricalcolo contributivo di tutta la pensione, ad esclusione dei lavoratori impegnati in attività gravose, per i quali le penalità verrebbero significativamente ridotte e anche il requisito contributivo scenderebbe a 36 anni. La terza strada sarebbe quella di fissare soltanto una età minima, a 62 anni, prevedendo penalizzazioni di almeno il 3% per ogni anno di anticipo prima del raggiungimento dei 67 anni.

Non è affatto escluso che con l’avvio del confronto all’inizio del prossimo anno vengano trovate nuove vie o alcune subordinate. Sempreché i tempi non vengano ulteriormente ritardati. La mancata operatività delle due commissioni di esperti, sulla separazione della spesa assistenziale da quella previdenziale e sull'individuazione delle categorie di lavori gravosi, non è certo un segnale incoraggiante. Ipotizzate fin dai tempi del governo Gentiloni, le commissioni sono ancora in naftalina, e guardano con qualche sospetto all'arrivo del tradizionale “milleproroghe” di fine anno.

Una soluzione forte sui contratti di espansione e il rafforzamento dello strumento gemello dell’isopensione (la Cgil ne chiede l’estensione da 4 a 7 anni con una agevolazione per le imprese minori) potrebbe garantire prepensionamenti nei contesti di crisi e lasciare spazio alla riforma delle pensioni per soluzioni a più lunga gittata.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©