Previdenza

Uscite per crisi aziendali, platea più larga

di Claudio Tucci

Il governo ha acceso un faro sul contratto di espansione, lo strumento introdotto nel 2019, che ha mandato in soffitta il contratto di solidarietà espansiva, per accompagnare i programmi di riorganizzazione e reindustrializzazione di imprese con oltre mille dipendenti. L’obiettivo è quello di “riadattarlo” per utilizzarlo, al meglio, nella gestione delle transizioni occupazionali che scatteranno a inizi 2021 con l’allentamento, e il graduale superamento, delle misure anti-crisi (cassa Covid, di cui l’ultima tranche di 12 settimane gratuita per le aziende, e blocco dei licenziamenti, in vigore, con eccezioni, fino al 31 marzo).

Il tema è delicato. I tecnici del ministero dell’Economia e del Lavoro stanno disegnando i primi scenari: da aprile, con la fine del blocco dei licenziamenti, l’esecutivo si aspetta almeno 250mila profili in uscita, con la cig emergenziale che proseguirà, probabilmente solo per la componente “in deroga”, per altri 3-6 mesi ma solo, appunto, per i settori non coperti dagli strumenti ordinari (il comparto industriale così in primavera potrebbe tornare a utilizzare i propri ammortizzatori, onerosi e con tetti sulle durate).

In quest’ottica, è il ragionamento dei tecnici del governo, con il ritorno alla normalità del mercato del lavoro si aprirebbero due strade per gestire le transizioni occupazionali.

La prima, è il ricorso agli strumenti “classici”, vale a dire cassa ordinaria, Cigs, e poi eventuali atti di recesso datoriali, mettendo in conto possibili contenziosi tra imprese e sindacato.

La seconda, invece, passerebbe proprio attraverso il contratto di espansione, che è in vigore, sperimentalmente, fino a dicembre, e per essere attivato, presuppone un accordo al ministero del Lavoro con i sindacati. La manovra 2021, ora all’esame delle Camere, ha apportato prime modifiche allo strumento, consentendone il ricorso anche nel 2021 e pure per le aziende con oltre 500 dipendenti (non più quindi oltre i mille). Secondo la relazione tecnica le imprese interessate sono salite a 917, per un costo intorno ai 120 milioni di euro.

Il contratto di espansione, oggi, per le grandissime aziende, funziona così: in caso di riorganizzazione o reindustrializzazione, e previo come detto accordo sindacale, un’impresa può attivare altre 18 settimane di ammortizzatore, con una riduzione dell’orario di lavoro fino al 30%, utile a gestire le uscite di personale a non più di 60 mesi (5 anni) dalla pensione di vecchiaia o anticipata. In cambio si debbono fare nuove assunzioni. I costi sono in parte a carico di Stato e in parte del datore: l’azienda paga un incentivo all’esodo, esentasse per le prime 9 mensilità, e il lavoratore al momento dell’uscita ha diritto a percepire la Naspi per un massimo di due anni.

Il governo pensa ora a un nuovo intervento sullo strumento. Tre sono le ipotesi allo studio. Primo: ampliare ancora un po’ la platea di imprese interessate, facendo scendere l’asticella ad almeno 250 dipendenti (si raddoppierebbe il numero, da 917 a circa 2mila imprese), facendo diventare il contratto di espansione “lo strumento” per le medie-grandi aziende. Secondo: prevedere per le grandi aziende che fanno piani di rilancio di rilevanza strategica per il Paese, coerenti con le nuove linee d’azione previste dal ministero del Lavoro in vista del Recovery Fund e che hanno in programma nuove assunzioni, ulteriori incentivi, ad esempio, consentendo una maggiore copertura dei costi per lo scivolo verso la pensione. Terzo: favorire il ricorso al contratto di espansione, a prescindere dai 5 anni di distanza dalla pensione, anche in caso di processi di formazione e placement, ripristinando obbligatoriamente l’assegno di ricollocazione (non a caso nella manovra 2021 è previsto un fondo di 500 milioni di euro iniziali per le politiche attive).

Dalle parti sociali arrivano primi segnali di apertura. «Il contratto di espansione può essere lo strumento giusto per gestire le transizioni occupazionali del prossimo biennio se lo si migliora, come il Governo sembra intenzionato a fare, e non lo si riduce ad essere solo cassa integrazione e scivolo verso la pensione - ha spiegato Pierangelo Albini, direttore dell’area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria -. Serve, piuttosto, accompagnare le imprese che hanno necessità di cambiare la propria struttura occupazionale inserendo nuove professionalità e lo si può fare, non solo consentendo e favorendo, anche con l’assegno di ricollocazione, i percorsi verso una nuova occupazione, ma anche offrendo maggiori coperture economiche a quelle imprese che negli accordi governativi assumono precisi impegni sui livelli occupazionali che si avranno al termine del contratto di espansione».

D’accordo, seppur con alcune precisazioni, la Cgil: «È bene che l’esecutivo ragioni su come affrontare l’uscita dalle misure emergenziali - ha sottolineato la segretaria confederale con delega al mercato del Lavoro, Tania Scacchetti -. Intanto, occorre ridefinire e rafforzare i contratti di solidarietà difensiva. Poi, certo il contratto di espansione può essere uno strumento utile. Ma a tre condizioni: che aiuti a uscire chi può andare in pensione, che sia collegato alle politiche attive e che favorisca nuove assunzioni, soprattutto di giovani».

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