Previdenza

Più flessibilità con una pensione attiva

di Tommaso Nannicini*e Fabrizio Patriarca**

Nel 2021 il governo si appresta a riaprire il cantiere pensioni, come documentato su queste colonne. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Perché è nota da tempo l’esigenza di superare lo scalone di 5 anni che si creerà a inizio 2022 con la fine di quota 100. E perché gli interventi tampone della legge di bilancio non rimuovono le iniquità del nostro sistema previdenziale. Un sistema che non è equo tra generazioni (visto che i costi della sua sostenibilità sono stati scaricati solo sui più giovani) e non è equo all'interno delle generazioni (visto che i più fragili hanno scarse tutele di fronte a un'età pensionabile che aumenta quando non hai un lavoro o quel lavoro diventa gravoso).

Bene, quindi, che il cantiere riapra. Con due precisazioni. La prima: facciamo in modo che il dialogo sociale ne sia un elemento importante. La seconda: stiamo attenti a non fare altre misure estemporanee. Si parla di quota 102. Fermiamoci: non siamo ai saldi. Non si sente il bisogno di quote 100 in miniatura, che non risolverebbero i nodi strutturali e scontenterebbero tutti. L'approccio che proponiamo è basato su altri ingredienti: 1) una “pensione attiva” per i soggetti per cui la flessibilità in uscita è una scelta; 2) una “quota 92”, strutturale e ben finanziata, solo per i soggetti per cui quella flessibilità è una necessità (disoccupati, lavoratori gravosi, persone con disabilità e loro familiari); 3) una revisione dei meccanismi di flessibilità già presenti nel sistema contributivo; 4) una “pensione contributiva di garanzia” per i più giovani. Ci concentriamo sul primo ingrediente, perché gli altri sono contenuti in un disegno di legge presentato al Senato (A.S. 1010, Nannicini e altre).

In che cosa consiste la nostra proposta di una pensione attiva? L'idea è quella di costruire un meccanismo che consenta un pensionamento graduale: raggiunta un'età prestabilita, al lavoratore si dà la possibilità di passare gli ultimi anni di lavoro part-time, ma con uno reddito netto pari a circa l'85% del salario che percepiva prima a tempo pieno. Per l'impresa il costo del lavoro si dimezzerebbe. Il lavoratore, insieme alla metà del salario erogata dal suo datore, riceverebbe in busta paga l'equivalente dei contributi complessivi e del Tfr.

Di fatto si consentirebbe al lavoratore anziano di entrare in un limbo tra lavoro e pensione: non si pagano contributi e non si ricevono prestazioni pensionistiche differite (esattamente come nel caso del pensionamento anticipato), ma si lavora la metà con una riduzione di meno del 15% del reddito disponibile. La pensione attiva non avrebbe impatto sulla sostenibilità finanziaria del sistema e avrebbe un costo di breve periodo, dovuto al mancato gettito contributivo, inferiore a un quarto delle altre misure proposte finora, permettendo quindi di ridurre la spesa anche a fronte di un forte ampliamento della platea dei beneficiari.

Alla fine del part-time, il lavoratore percepirebbe una pensione maggiore di quella che avrebbe ricevuto col pensionamento completo, anche in assenza di penalizzazioni, guadagnando il 3% per ogni anno di limbo in quanto, nonostante il mancato accumulo di montante contributivo, si applicherebbero coefficienti di trasformazione più alti in virtù della maggiore età anagrafica.

Oltre a risolvere il problema contingente dello scalone, la nostra proposta favorirebbe l'invecchiamento attivo. Dal punto di vista del lavoratore, sarebbe uno strumento utile a gestire una transizione graduale all'inattività, con tutte le complicazioni sul piano psicologico e sociale che comporta. Dal punto di vista delle aziende e della pubblica amministrazione, favorirebbe un ricambio intergenerazionale che non prenda la forma della rottamazione ma del passaggio di testimone tra generazioni che cooperano. Da ultimo ma non ultimo, sarebbe una risposta concreta alle richieste e ai tentativi talvolta utopici di riduzione dell'orario di lavoro: lavorare meglio, lavorare tutti.

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