Adempimenti

«Riforma degli ammortizzatori, reimpiego al centro»

di Nicoletta Picchio

Non è solo una questione di Covid, anche se ora la pandemia impone di accelerare i tempi per evitare tensioni sociali nei prossimi mesi. Serve una riforma degli ammortizzatori sociali e soprattutto riorganizzare le politiche attive del lavoro, per favorire il reimpiego. «Non voglio creare allarmismi, ma se non si definisce una riforma avremo un futuro difficile, saranno dolori. Non si possono prorogare ad oltranza il divieto di licenziare e la cassa integrazione». Maurizio Stirpe, vice presidente di Confindustria per i rapporti sindacali, lunedì della prossima settimana presenterà al ministro del Lavoro le proposte di Confindustria su un nuovo modello di tutele per chi perde il lavoro e come rendere veramente efficaci gli strumenti per trovare una nuova occupazione. E, nell’immediato, invita il governo a dare certezze sulla proroga o meno dello stato di emergenza: «Bisogna dare il tempo alle imprese di organizzarsi».

Tornando alla riforma, per Stirpe «non bisogna più mettere al centro il posto di lavoro, ma prendersi cura dei lavoratori, delle imprese e delle persone. E quindi certamente assicurare un sostegno al reddito a chi perde il lavoro, ma contemporaneamente attivare un sistema di formazione finalizzato al reimpiego. Questo garantirebbe anche una maggiore equità al sistema, sia per i lavoratori che per le imprese. La spesa per le politiche del lavoro deve essere riequilibrata: sono circa 30 miliardi all’anno, quasi interamente dedicati alle politiche passive».

Partendo da questa premessa, come dovrebbe essere strutturato un sistema di ammortizzatori sociali efficace?

Immaginiamo alcuni pilastri fondamentali. Innanzitutto va rivista la Naspi, la Nuova assicurazione sociale per l’impiego. Finora è esclusivamente un sussidio economico per chi viene licenziato. Uno strumento che esiste in tutti i paesi europei. Da noi però non viene accompagnato da una parallela ed efficace ricerca di una nuova collocazione. Gli uffici di collocamento non funzionano e comunque non c’è nessun vincolo da parte del lavoratore che percepisce la Naspi di formarsi per riuscire a trovare un nuovo impiego. Una riforma dovrebbe prevederlo. E bisognerebbe contemporaneamente rendere efficienti le politiche attive.

Gli uffici di collocamento non svolgono il proprio ruolo: come cambiarli?

In Germania si occupano del collocamento circa 90mila persone, da noi, compresi i 3mila navigator, siamo a circa 10mila. Le persone quindi sono poche. E questi uffici non sono in contatto reale con le imprese, per poterne capire i bisogni e incrociare domanda e offerta di lavoro. Per questo è importante aprire alla collaborazione con le agenzie private per il lavoro, facendo accordi sul territorio. Dobbiamo uscire dall’approccio della mera erogazione di denaro per entrare nella logica del servizio alla persona, puntando al reinserimento. Tra l’altro le competenze amministrative sono divise tra Stato e Regioni e questo causa una maggiore difficoltà ad operare sul territorio.

L’autunno si preannuncia molto difficile, con molte imprese in crisi. C’è a rischio un milione di posti di lavoro, forse più…

Sì, il rischio è forte. E per questo è importante anche un altro intervento, distinguere tra le crisi che presentano solo problemi occupazionali e le crisi industriali. Le prime vanno gestite al ministero del Lavoro, essenzialmente nella logica delle politiche attive. Le crisi industriali, invece, andrebbero affrontate al ministero dello Sviluppo Economico, in coerenza con i piani di rilancio industriale da accompagnare con la cassa integrazione straordinaria e i contratti di solidarietà. In ogni caso sui risvolti occupazionali delle crisi sarebbe opportuno coinvolgere anche i fondi interprofessionali, creando una gestione separata in cui far confluire contributi volontari delle imprese finalizzati alla ricollocazione.

Con il sindacato era stato messo a punto un documento nel 2016, che puntava sostanzialmente a questi obiettivi. Ma è rimasto sostanzialmente fermo. Oggi?

Non è facile per nessuno, men che meno per il sindacato trovare il coraggio per cambiare le cose. Però non c’è dubbio che non si possa andare avanti all’infinito con il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione. Il governo deve decidere come vuole arrivare a fine anno, ma poi una riforma bisogna metterla in piedi perché purtroppo ci vorrà tempo per tornare ai livelli di occupazione pre Covid. Con il sindacato dobbiamo ripartire delle intese degli ultimi anni.

Lei recentemente ha proposto una cassa integrazione Covid per i prossimi due anni. Dovrebbe andare in parallelo con la riforma degli ammortizzatori sociali?

Di fatto è nella riforma. Dal gennaio 2021 bisogna cambiare il sistema di protezione. Le crisi sono sempre più frequenti, con effetti trasversali per tutta l’economia. Quella che chiamo la Cassa Covid è lo strumento che può aiutarci a cambiare il sistema di oggi, che non distingue il tipo di crisi, occupazionale o industriale, e che non copre tutti.

Il reddito di cittadinanza non ha funzionato per trovare lavoro. Va abolito?

Deve rimanere solo come strumento di contrasto alla povertà. Mi pare abbia già ampiamente fallito come strumento per trovare un posto di lavoro a chi non ce l’ha.

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