Rapporti di lavoro

Reintegra in specifici casi disciplinari

di Claudio Tucci

Cosa succede se una azienda sopprime una posizione di lavoro perché in crisi o decide di cambiare modello organizzativo (per esempio, esternalizza l'ufficio paghe o l'assistenza informatica)? Che se il licenziamento per motivo economico o organizzativo viene dichiarato illegittimo, per il lavoratore con contratto a tempo indeterminato a tutele progressive, scatta un indennizzo «certo e crescente» che varia, cioè, in funzione dell'anzianità di servizio.

Qui il successivo decreto delegato dovrebbe prevedere un doppio binario: un indennizzo monetario fino a un massimo di 1,5 mensilità per ogni anno di impiego, con un tetto di 36 mensilità, oltre il quale il giudice non potrà andare; o la possibilità per il datore di versare spontaneamente un'indennità al lavoratore licenziato (le tutele crescenti consisterebbero in una mensilità per ogni anno di servizio, con un limite di 24 mensilità). A questo punto, se il lavoratore rifiuta la conciliazione, deve restituire la somma ricevuta e impugnare il licenziamento entro un termine breve e «certo»; altrimenti la conciliazione si intende raggiunta per comportamento concludente.

Attualmente per i licenziamenti economici, per giustificato motivo oggettivo, è previsto il pagamento di un'indennità (tra 12 e 24 mesi). Ma se il fatto è «manifestamente insussistente» scatta il reintegro più il pagamento di una indennità fino a 12 mesi.
Nel caso invece di «licenziamento nullo» l'emendamento riformulato dal governo al Jobs act depositato ieri in commissione Lavoro conferma l'attuale regime di tutela reale. Si tratta di ipotesi di scuola o poco più, se si licenzia una madre durante il primo anno di vita del figlio o un coniuge 12 mesi dopo le nozze ci sarà sempre e comunque il reintegro in azienda e il datore dovrà pagare pure il risarcimento, come previsto dall'attuale articolo 18, post legge Fornero.

Rimarrà in vigore l'attuale normativa (tutela reale piena) anche nei casi di licenziamento discriminatorio. Qui si tratta di ipotesi in cui l'azienda licenzia perchè si è iscritti a un sindacato, o per un determinato orientamento sessuale o credo religioso o colore della pelle. In caso di declaratoria di illegittimità di questi licenziamenti si conferma la condanna al reintegro oltre al pagamento del risarcimento pieno.

Le principali novità (oltre alla cancellazione della reintegra tout court nei licenziamenti economici) arrivano pure sul fronte dei licenziamenti disciplinari, quando cioè c'è una mancanza del lavoratore (e viene quindi meno il vincolo fiduciario). In queste ipotesi, secondo la riformulazione del governo, la regola generale è l'indennizzo economico inversamente proporzionale rispetto alla colpa del lavoratore. Rimarrà invece il reintegro solo limitatamente «a specifiche fattispecie di licenziamenti disciplinari ingiustificati».

Oggi, dopo la legge 92, sono solo due i casi in cui, nei licenziamenti disciplinari, è in vigore la tutela reale: quando cioè il fatto non sussiste (non è vero che il dipendente ha rubato) o quando è punito nei contratti collettivi o nei codici disciplinari con una sanzione conservativa (per esempio, una multa o una sospensione di 1 o 2 giorni dal lavoro). Nella pratica, tuttavia, questa formula, molto compromissoria, ha lasciato incertezze interpretative che hanno determinato una divisione di orientamenti tra i giudici. E quindi complicato il quadro (senza dare regole certe a imprese e lavoratori).

L'individuazione delle «specifiche fattispecie» arriverà con i decreti delegati: l'ipotesi su cui si sta lavorando l'esecutivo è ridurre il reintegro nei casi in cui sia dimostrata l'insussistenza del fatto, inteso come reato perseguibile d'ufficio, contestato al lavoratore. E quindi si avrebbe una limitazione a casi gravissimi (qualora non si riuscirà a delimitare queste fattispecie si potrebbe consentire al datore di lavoro di optare per l'indennizzo anche in caso di condanna al reintegro - un'ipotesi tuttavia osteggiata dalla minoranza Pd). Da quanto si apprende, si starebbe valutando anche di inserire nel decreto delegato su tutele crescenti e articolo 18 anche la normativa sul contratto di ricollocazione (si ragiona di riconoscerlo al lavoratore licenziato con almeno due anni di anzianità aziendale). Il punto è «non ripetere gli errori del passato - ha sottolineato il giuslavorista Giampiero Falasca -. Pensare di ancorare la reintegra ai fatti astrattamente perseguibili come reati sarebbe un errore decisivo: il concetto non ha confini certi, e quindi si aumenterebbe l'incertezza, invece che ridurla».

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