Rapporti di lavoro

Il criterio della eterorganizzazione per riconoscere il finto collaboratore

di Antonio Carlo Scacco

Il concetto di etero-organizzazione è balzato prepotentemente alla attenzione delle cronache dopo l'approvazione del decreto legislativo 81/2015 che, all'articolo 2, co. 1, prevede, ai fini dell'applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato al rapporto di collaborazione, in aggiunta ai requisiti della esclusività e continuatività della prestazione, le “modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” (etero-organizzazione). La nozione sembra mutuata dalla giurisprudenza comunitaria in tema di libera circolazione dei lavoratori e libera concorrenza fra imprese. Secondo la Corte di Giustizia europea (ad. es. C-413/13 FNV Kunsten Informatie en Media c. Regno di Olanda) l'indice rivelatore della subordinazione non è tanto l'eterodirezione, quanto la etero-organizzazione, ossia la dipendenza organizzativa del lavoratore dal committente/datore e la sua incapacità di offrire le sue prestazioni di servizio direttamente sul mercato ad altri potenziali clienti. Il legislatore italiano, ponendosi sulla strada delineata dalla Corte europea, valorizza l'elemento della dipendenza organizzativa (anziché quello della dipendenza economica) per riconoscere l'estensione al collaboratore (meglio: falso collaboratore) delle tutele proprie del lavoro subordinato. Ma tale procedere può essere sottoposto a critiche sotto almeno due ordini di profili, uno più propriamente di merito l'altro di metodo.
Sotto il primo profilo non è certa la reale efficacia definitoria del criterio etero-organizzativo. Un coordinamento spazio-temporale della prestazione è connaturato a qualsiasi attività lavorativa caratterizzata da continuità. Si pensi al fiscalista (non iscritto in Ordini) che periodicamente presta la sua opera presso la sede dell'associazione in alcuni giorni predeterminati della settimana , all'analista (sempre non ordinato) che collabora allo stesso modo presso il laboratorio medico, al docente di corsi presso scuole ecc.. In tali casi è difficile negare che vi sia un coordinamento spaziale e temporale (i luoghi e i tempi di lavoro sono quelli indicati dal committente), ma è chiaramente irragionevole ricondurre tali rapporti alle tutele proprie del rapporto di lavoro subordinato.
L'altra critica, di metodo, investe l'approccio utilizzato dal legislatore per perseguire la finalità (encomiabile) di assicurare maggiori tutele ai lavoratori autonomi in stato di sostanziale dipendenza (organizzativa o economica che sia). Si è preferita la vecchia strada del contrasto al falso lavoro autonomo piuttosto che la tutela del lavoro autonomo in oggettive condizioni di maggiore o minore dipendenza ma genuino. Un errore concettuale nel quale non di rado è incorso il nostro legislatore (un esempio è l'irrigidimento della normativa del lavoro a progetto operata dalla riforma Fornero) nella convinzione che quasi sempre la dipendenza economica/organizzativa del lavoratore mascherasse in realtà rapporti di lavoro subordinato, con l'obiettivo più di reprimere il lavoro autonomo fraudolento che approntare un moderno ed efficace quadro di tutele in favore delle prestazioni lavorative svolte in condizioni di dipendenza, ma pur sempre genuinamente autonome. In sostanza, utilizzando una autorevole ed efficace espressione di Giuseppe Santoro Passarelli, apprestando una tutela “dal” lavoro autonomo piuttosto che, come sarebbe auspicabile, una tutela “del” lavoro autonomo.

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