Rapporti di lavoro

La mappa del lavoro ai tempi della crisi

di Micaela Cappellini

A guardare l’Europa del lavoro, in questi otto anni di crisi, il primo impatto è quasi di sollievo: a maggio del 2008 risultava occupato il 65,8% della popolazione, mentre a maggio dell’anno scorso il 66,6 per cento. Pochi decimi di guadagno, ma pur sempre il segnale di una tenuta. Eppure, questo Primo maggio dei lavoratori europei porta con sé l’amaro in bocca di molti nodi irrisolti, e quelli italiani sono ancora di più.

La disoccupazione, per esempio, rimane alta: stando ai dati del rapporto 2017 dell’Etui, l’Istituto di ricerca della Confederazione dei sindacati europei, solo in Spagna e in Grecia supera il 20%, ma rimane pur sempre al di sopra del 10% in cinque Paesi su 28 della Ue, tra cui l’Italia. E la mancanza di lavoro fra gli under 24 è drammatica: soltanto in due Paesi, Olanda e Danimarca, l’occupazione giovanile supera il 60% ed è paragonabile alla percentuale di occupati nella popolazione in generale.

Dall’anno della Grande crisi a oggi i lavori a tempo determinato sono andati aumentando, mentre le chance di trasformarli in un impiego a tempo indeterminato sono diminuite: nel 2010, ricorda l’Etui, a un anno dalla firma rimaneva ancora con un contratto precario il 54% dei lavoratori, mentre già nel 2014 la percentuale saliva al 60 per cento. La patria dei contratti a tempo determinato è la Polonia, dove quasi un lavoratore su tre è a tempo, mentre per una volta l’Italia è in perfetta media Ue, poco sotto il 15% (dati secondo trimestre 2016).

Grazie al part time, in questi anni in Europa è aumentato il numero degli occupati, ma il numero totale delle ore lavorate è purtroppo diminuito. Fino al paradosso che in ben sei Stati europei, tra il 2013 e il 2016, sono stati creati più posti di lavoro a tempo parziale che a tempo pieno: sono l’Austria, la Danimarca, il Belgio, la Finlandia, Cipro e la Lettonia. E i salari? Quelli reali, nel 2016, sono cresciuti dappertutto, nella Ue. Ovunque tranne che da noi e in Belgio.

Un dato italiano in crescita nel periodo considerato dal rapporto Etui è il tasso di sindacalizzazione degli addetti, che insieme a quello spagnolo è l’unico in aumento in Europa, tra il 2008 e il 2015. Non il più alto: da noi la cosiddetta densità sindacale si attesta appena al di sopra del 30%, neanche la metà delle socialdemocrazie scandinave - Finlandia, Svezia e Danimarca - dove si sfiora il 70 per cento. I meno sindacalizzati sono i Paesi baltici: Estonia, Lettonia e Lituania hanno percentuali inferiori al 15 per cento.

In questo quadro, però, l’Italia mostra qualche pennellata di luce. Non siamo solo la patria per antonomasia dei cervelli in fuga, siamo anche un Paese in grado di attirare lavoratori. In particolare, siamo la quarta destinazione preferita dai lavoratori dell’Est Europa che emigrano a Ovest in cerca di maggior fortuna. Secondo l’Etui, nel 2015 rappresentavano il 3,2% della nostra forza lavoro: una percentuale non lontana da quella dell’Austria (3,45%) e della Gran Bretagna (3,85%). Solo l’Irlanda fa molto meglio: a Dublino i lavoratori dell’Est rappresentano quasi il 7% del totale degli occupati. L’Italia è una mèta in crescita anche fra chi richiede asilo: l’anno scorso si sono registrate 759mila domande in Germania e 111mila - è il secondo posto - nel nostro Paese.

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