Rapporti di lavoro

Più regole e più concorrenza senza approcci corporativi

di Marcello Clarich

Il Jobs act per lavoratori autonomi e professionisti rilancia il dibattito sulle libere professioni.

La logica della nuova legge (la numero 81/2017) è quella di rafforzare le tutele del lavoratore autonomo anzitutto nei confronti dei propri clienti e committenti.

Qualifica, per esempio, come abusive clausole contrattuali che consentono a questi ultimi di modificare in modo unilaterale le condizioni del contratto, di recedere senza congruo preavviso, di imporre termini di pagamento superiori a sessanta giorni.

La legge assume dunque che il lavoratore autonomo e il professionista iscritto a un ordine siano in molti casi un “contraente debole”. Negli ultimi anni abbiamo assistito, infatti, a un doppio processo: la crisi economica ha colpito anche le libere professioni, perché la domanda di servizi professionali è diminuita e ciò ha comportato di per sé una maggior competizione tra professionisti; norme liberalizzatrici hanno soppresso i regimi tradizionali delle tariffe minime obbligatorie. In presenza di un numero di professionisti in realtà da tempo troppo elevato, data anche la scarsa selettività degli esami di Stato, i grandi clienti hanno potuto imporre condizioni economiche capestro. Le stesse pubbliche amministrazioni assegnano spesso gli incarichi professionali con gare al prezzo più basso.

Ma il professionista può anche essere un “contraente forte” nei confronti di persone fisiche o piccole imprese. Infatti, il settore delle professioni protette, specie quelle legate a interessi fondamentali della collettività come, per esempio, la salute o la tutela dei diritti, è affetto da “asimmetrie informative”: il sapere specialistico rende squilibrato il rapporto con il cliente che non è in grado di valutare la qualità delle prestazioni e la congruità dei compensi richiesti.

Da qui la non praticabilità delle ricette volte a liberalizzare completamente le attività professionali, sopprimendo percorsi formativi, esami di Stato, sistema ordinistico, ecc. Anzi, la garanzia della qualità delle prestazioni richiede una disciplina rigorosa a tutela del cliente.

La questione si sposta dunque su quali regole siano funzionali allo scopo. Nella tradizione, non solo italiana, la disciplina delle professioni organizzate in ordini e collegi ha avuto una matrice corporativa, cioè di rappresentanza e di tutela degli iscritti. Essa emerge per esempio dai tentativi di ampliare l’area delle attività riservate ai professionisti e dunque sottratte al mercato; dall’opposizione a forme organizzative di tipo societario aperte, almeno in parte, anche a soci di capitale; dalla contrarietà alla regola del preventivo scritto obbligatorio; dal cattivo funzionamento della responsabilità disciplinare affidata a organismi non equidistanti tra cliente denunciante e professionista. Talvolta, com’è accaduto nel caso dei notai e degli avvocati, categorie di professionisti contigue si sono contese l’esclusiva di certi tipi di prestazione.

Insomma, il mercato (o settore) delle libere professioni presenta problemi di regolamentazione che andrebbero trattati con equilibrio. I criteri che dovrebbero guidare la mano del legislatore, anche sulla scorta dei principi del diritto europeo, sono essenzialmente i seguenti: l’attività professionale, oltre alla componente intellettuale, ha anche natura economica; in quanto tale non è estranea alla logica della concorrenza, come da anni cerca di spiegare l’Autorità garante della concorrenza e del mercato; una regolamentazione pubblicistica è necessaria per assicurare la qualità delle prestazioni e tutelare il lato debole del rapporto professionale, cioè (con le eccezioni prima indicate) il cliente; essa deve rispettare il principio di proporzionalità, che ammette deroghe alle regole al diritto comune solo se strettamente necessarie per tutelare l’interesse pubblico.

Il modello teorico, dal quale siamo ancora lontani, è dunque chiaro. Ma come spesso accade, sono i dettagli della disciplina vigente o delle proposte di legge a piegarlo a interessi di parte che trovano spesso ascolto in sede parlamentare.

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