Rapporti di lavoro

L’aumento riporta le spese ai tempi della mobilità

di Enzo De Fusco

L’aumento del ticket sui licenziamenti disposto dal disegno di legge di Bilancio per il 2018 potrebbe costare caro alle aziende coinvolte da licenziamenti collettivi: ipotizzando di dover fare 175 licenziamenti, un’azienda spenderebbe quasi 800mila euro in più rispetto a quanto programmato con le regole attuali.

A vedere gli altri numeri si può certamente dire che le conseguenze economiche di questa norma non saranno banali per le singole imprese, soprattutto in un contesto in cui la crisi non è ancora alle spalle.

Il ticket sui licenziamenti è stato introdotto dalla riforma Fornero (legge 92/2012) , è un contributo che nasce per finanziare la Aspi/Naspi e si applica in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per causa diversa dalle dimissioni. Analizzando i dati a disposizione fino al 2016, emerge che la spesa per la prestazione di disoccupazione tra il 2013 e il 2016 è rimasta sostanzialmente invariata attestandosi a 9,8 miliardi nel 2016 (poco sotto i 9 miliardi nel 2013).

Anche il numero dei licenziamenti interessati dal ticket è rimasto sostanzialmente invariato: nel 2013 erano 1.011.529 e nel 2016 sono stati 957.145 (-5%).

Allora, perché è necessario aumentare del 100% il contributo di licenziamento se il quadro economico di riferimento non è variato rispetto al 2013?

A partire dal 2018, la norma sembra voler reintrodurre ciò che era stato eliminato solo qualche mese fa, ossia il contributo d’ingresso alla mobilità che era previsto dalla legge sui licenziamenti collettivi (legge 223/91) e che è stato soppresso dal 1° gennaio di quest’anno unitamente all’indennità di mobilità.

Le somiglianze con il “vecchio” sistema sono molte, a partire dalle imprese destinatarie. L’aumento del ticket riguarda le sole aziende che rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione e che sono tenute ad avviare la procedura sindacale in caso di licenziamenti collettivi.

Una ulteriore considerazione riguarda gli importi da versare: fino al 2016 per ogni lavoratore licenziato nell’ambito della procedura collettiva, e senza accordo sindacale, l’azienda era tenuta al pagamento di un contributo d’ingresso alla mobilità mediamente pari a 9.065 euro. A partire dal 2018, alle stesse condizioni (e se la norma venisse confermata), il ticket sul licenziamento da versare per un’anzianità di 36 mesi sarebbe pari a 8.819 euro. A gennaio 2017 il ticket sui licenziamenti era meno costoso per le imprese, rispetto al contributo di mobilità, in un quadro complessivo di coerente riduzione dei costi a fronte di una riduzione dei periodi di ammortizzatori a disposizione dopo la riforma (Dlgs 148/2015). La norma dal 2018 sembra, invece, ripristinare i valori più onerosi del passato, ma lasciando sempre ridotto il periodo di fruizione dell’ammortizzatore.

Non è chiaro quale sarà il reale gettito di questo contributo e la stessa relazione tecnica al Ddl di bilancio spiega che per la determinazione delle maggiori entrate contributive derivanti dall’aumento del contributo di licenziamento è stato ipotizzato un numero annuo di licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato pari a 60mila. Anche se la stessa relazione precisa che negli ultimi anni il numero di licenziamenti collettivi nelle aziende in area Cigs è stato sicuramente superiore.

Va ricordato che le novità riguarderanno tutti i licenziamenti effettuati dal 1° gennaio 2018, nell’ambito di una procedura collettiva (sono esclusi i casi di dimissioni per giusta causa).

L’unica salvaguardia riguarda i licenziamenti effettuati anche dopo il 1° gennaio 2018, ma che riguardano procedure avviate entro il 20 ottobre 2017.

Questo vuol dire che tutte le procedure avviate dopo quest’ultima data, inevitabilmente, dovranno mettere in bilancio una spesa doppia.

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