Rapporti di lavoro

La nuova disciplina mette al centro il giudice

di Maria Carla De Cesari

Le conseguenze della disciplina dell’equo compenso, approvata durante l’iter di conversione del decreto fiscale, dovranno essere valutate sul campo. Basti pensare che la maggior parte delle clausole vessatorie definite in primis per l’avvocatura e poi estese a tutti i liberi professionisti – sia appartenenti agli Ordini, sia semplici partite Iva – tali non sono se risultano frutto di «specifica trattativa» e approvazione da parte di committente e prestatore.

Inoltre, le clausole vessatorie e il «compenso iniquo», cioè al di sotto dei parametri giudiziali (per le professioni ordinistiche) devono essere dichiarati
tali dal giudice.

Il possibile imbuto della giurisdizione rende dunque l’equo compenso non “automatico”, anche se è possibile che il prezzo delle prestazioni professionali tenda a posizionarsi “naturalmente” al livello o al di sopra dei parametri che finora, dopo l’abolizione delle tariffe vincolanti e poi di riferimento hanno guidato il giudice nella liquidazione delle parcelle in caso di mancato accordo sul corrispettivo. In ogni caso, la disciplina potrebbe far aumentare il contenzioso, anche oltre il perimetro dei committenti forti a cui è indirizzata: in via primaria, la disciplina, banche, assicurazioni, imprese al di fuori della definizione europea di micro aziende e Pmi. Ultima aggiunta, la pubblica amministrazione.

Al di là di queste conseguenze, il passaggio legislativo sull’equo compenso è rilevante perché, a dispetto di alcune rappresentanze professionali, nelle stanze della commissione Bilancio del Senato e nei corridoi adiacenti è venuta a cadere la separazione tra professionisti iscritti in Albi e semplici Partite Iva. In questo senso ha indicato la strada la petizione veicolata su Change.org e firmata da quasi 27mila professionisti che chiedevano di correggere i cattivi comportamenti della Pa, che mette a bando servizi a prezzi simbolici.

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