Rapporti di lavoro

Licenziabile chi torna al lavoro oltre il limite

di Pietro Gremigni

Il lavoratore in malattia ha diritto alla conservazione del posto di lavoro per il periodo di tempo determinato dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità, come stabilito dall’articolo 2110 del Codice civile. Una volta decorso questo lasso di tempo, che viene chiamato periodo di comporto, il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto, dando al dipendente un regolare preavviso. A stabilire, in concreto, il termine di conservazione del posto sono i contratti collettivi, che ne fissano la durata a seconda dell'anzianità di servizio oppure della qualifica.

Le tipologie di periodi di comporto sono due: il comporto “secco” , cioè il periodo massimo di conservazione del posto in presenza di un’unica malattia, e il comporto per sommatoria, il periodo massimo di conservazione del posto in presenza di più episodi di malattia, anch’esso individuato dai contratti collettivi.

In assenza della contrattazione collettiva il periodo deve essere determinato dal giudice in via equitativa. Se, per esempio, il Ccnl fissa il comporto secco in 12 mesi, un’unica malattia dà diritto a conservare il posto per un massimo di 12 mesi continuativi. Quando ci sono invece più malattie, più assenze sono ammesse nell’arco di 30 mesi al massimo.

Il conteggio del periodo

Nel periodo di assenza per malattia sono computabili nel conteggio del periodo di comporto i giorni non lavorativi (sabato, domenica, festività infrasettimanali) che cadono nel periodo di assenza; i giorni di sciopero che cadono nello stesso periodo; le assenze per cure termali retribuite fruite in periodo extraferiale.

Non sono invece da conteggiare i periodi di congedo annuale (30 giorni) per cure riservato ai lavoratori mutilati e invalidi civili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%; le assenze per infortunio e malattia professionale; le assenze per malattia dell’invalido dovuta allo svolgimento di mansioni incompatibili con il suo stato; le malattie causate da mobbing; i periodi di assenza di malattia a causa di gravidanza o puerperio; i periodi di malattia derivanti dall’interruzione della gravidanza entro il 180° giorno dall’inizio della stessa.

La scadenza

Una volta terminato periodo di comporto il datore di lavoro può legittimamente licenziare il lavoratore. La Cassazione, con la sentenza 8707/2016, ha deciso che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non al licenziamento disciplinare, ma a quello per giustificato motivo oggettivo. Il datore di lavoro, infatti, non deve contestare le assenze, ma limitarsi a indicarle nel loro complesso, fermo poi restando l’onere, nell’eventuale contenzioso giudiziario, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato, e cioè l’esatto conteggio dei giorni di malattia.

Il recesso

Le sezioni unite della Cassazione, con sentenza 12568/2018, hanno invece sottolineato che il recesso datoriale costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo. Il recesso alla scadenza del termine non deve essere effettuato immediatamente, ma anche in seguito, purché sia fatto tempestivamente (Cassazione 1524/1990): l’ipotesi opposta, infatti, fa presumere una tacita rinuncia del datore di lavoro al recesso. Il giudizio di tempestività andrà valutato dal giudice caso per caso (Cassazione 19400/2014).

Se il lavoratore, una volta scaduto il comporto, si ripresenta al lavoro questo non implica la rinuncia del datore di lavoro a licenziarlo, purché il recesso avvenga entro un breve periodo.

Il licenziamento illegittimo di un lavoratore assente in pendenza di comportoè considerato tale in due casi: quando viene intimato a comporto ancora in corso e quando non viene effettuato tempestivamente dopo la scadenza.

Nel primo caso, secondo la citata sentenza 12568/2018 è da considerarsi nullo, ma può essere rinnovato nel caso in cui le assenze del lavoratore si protraggano oltre il termine massimo. Nel secondo caso, invece, il recesso è illegittimo, non supportato da una valida motivazione: a favore del dipendente scattano la tutela reale della reintegrazione o quella obbligatoria della riassunzione, a seconda delle dimensioni aziendali.

Rispetto all’ipotesi della nullità del recesso, il Dlgs 23/2015 sulle tutele crescenti non riconosce esplicitamente il diritto al reintegro per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, a differenza dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori nei riguardi del personale già in forza alla stessa data.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©