Rapporti di lavoro

Nel Decreto dignità delocalizzazione dai confini incerti

di Antonio Carlo Scacco

L'articolo 5 del cosiddetto decreto dignità (Dl 87/18), in corso di conversione, prevede norme che mirano a scoraggiare la delocalizzazione delle imprese beneficiarie di aiuti agli investimenti produttivi. Più in particolare, l'articolo 5, comma 2, prevede che le imprese italiane ed estere, operanti nel territorio nazionale, che abbiano beneficiato di un aiuto di Stato con investimenti produttivi specificamente localizzati ai fini dell'attribuzione del beneficio, decadano da quest'ultimo ove l'attività economica entro 5 anni sia delocalizzata in siti appartenenti all'ambito nazionale ovvero a territori dell'Unione europea e degli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo (EEA). Poiché la disposizione fa espresso riferimento (anche) alle delocalizzazioni attuate nell'ambito dell'EEA (European Economic Area, comprendente l'Unione propriamente detta e l'Islanda, il Liechtenstein e la Norvegia) è utile ricordare lo stato della legislazione europea in proposito.

Poco più di un anno fa la Commissione europea ha emanato il regolamento Ue n. 1084/2017, il quale, nel dare una precisa nozione di “delocalizzazione” (relocation), ha notevolmente ristretto il campo di intervento del precedente General block exemption Regulation (GBER, regolamento Ue 651/2014) ai sensi del quale gli Stati membri potevano concedere un maggior numero di misure di aiuto senza la necessità della previa notifica alla Commissione per un'autorizzazione preventiva. Nel GBER approvato nel 2014 si considera delocalizzazione (articolo 13), ai sensi della normativa UE in materia di aiuti di Stato, una situazione nella quale il beneficiario (inteso a “livello di gruppo”, ossia come entità economica con una fonte comune di controllo) nei due anni precedenti la domanda di aiuti chiude la medesima o un'analoga attività nello spazio economico europeo (per “attività identica o simile” si intende un'attività della stessa classe, codice numerico a quattro cifre della Nace) o che, al momento della domanda di aiuti, programma di cessare l'attività entro due anni dal completamento dell'investimento iniziale oggetto dell'aiuto. Con “chiusura della attività” si intende la chiusura al 100%, ovvero la chiusura parziale con perdite sostanziali di posti di lavoro (almeno 100 posti di lavoro o una riduzione di almeno il 50% dei posti). Pertanto la notifica per l'autorizzazione preventiva è necessaria in tutti i casi di chiusura completa e se almeno una delle due condizioni è superata in caso di chiusura parziale.

Come anticipato, tali regole sono state ulteriormente rafforzate in senso restrittivo con il regolamento 1084/2017. In primo luogo con la introduzione della nozione di “delocalizzazione” (nuovo paragrafo 61 bis dell'articolo 2 del GBER) secondo cui è tale il trasferimento della stessa attività o attività analoga da uno stabilimento nel territorio EEA (stabilimento iniziale) verso lo stabilimento sovvenzionato (di destinazione) in altra parte del territorio EEA purché il prodotto o servizio nello stabilimento iniziale e in quello sovvenzionato serva almeno parzialmente per le stesse finalità e soddisfi le richieste o le esigenze dello stesso tipo di clienti. Deve inoltre esservi una «perdita di posti di lavoro nello stabilimento iniziale» anche se non esiste, secondo la nuova formulazione e differentemente da quanto stabilito in precedenza, una soglia minima di posti di lavoro perduti (anche un solo posto, pertanto, è rilevante).

Inoltre (nuovi paragrafi 16 e 17 dell'articolo 14) il beneficiario deve confermare che non ha effettuato una delocalizzazione, verso lo stabilimento in cui deve svolgersi l'investimento iniziale per il quale è richiesto l'aiuto, nei due anni precedenti la domanda di aiuto e si impegna a non farlo nei due anni successivi al completamento dell'investimento iniziale per il quale è richiesto l'aiuto.

È interessante notare le differenze tra la nozione di delocalizzazione presente nella normativa europea GBER e quella specificata dal comma 6 dell'articolo 5 del decreto dignità.

Secondo quest'ultimo, per delocalizzazione si intende il trasferimento dell'attività economica specificamente incentivata o di una sua parte dal sito produttivo incentivato ad altro sito, da parte della medesima impresa beneficiaria dell'aiuto o di altra impresa con la quale vi sia rapporto di controllo o collegamento ai sensi dell'articolo 2359 del Codice civile.

Manca una nozione specifica di “delocalizzazione di attività economica” come manca la condizione riferita al prodotto/servizio dello stabilimento di inizio/destinazione, avuto anche riguardo alle finalità servite ed alle richieste dei clienti. Manca altresì qualsiasi riferimento alla perdita occupazionale (anche se il successivo articolo 6 tutela la perdita occupazionale superiore al 50% ma esclusivamente con riferimento a misure di aiuto di Stato che prevedono la valutazione dell'impatto occupazionale e fuori dei casi riconducibili a giustificato motivo oggettivo). Le considerazioni critiche di cui sopra non vengono meno (ed anzi forse vengono esaltate) se si considera il disposto del comma 3 dell'articolo 5 secondo il quale, stante la molteplicità delle tipologie di aiuti, le diverse amministrazioni che istituiscono e gestiscono le misure di aiuto individuano con propri provvedimenti le modalità attraverso le quali verrà attuato il controllo del rispetto del vincolo (potranno anche adottare una nozione specifica di “delocalizzazione di attività economica”?). Il rischio – concreto - è quello di creare notevole confusione interpretativa negli operatori ed un incremento indesiderato della normativa di riferimento, con effetti non positivi sulla certezza, economica e giuridica, degli operatori.

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