Rapporti di lavoro

L’era del tecno-diritto esige una formazione ibrida

di Dario Aquaro

Ricerche selettive dei dati, costruzione automatica di testi giudiziali e negoziali, argomentazione artificiale su base cognitiva e semantica. L’impatto tecnologico nella pratica forense e la velocità della trasformazione digitale richiamano il tema delle competenze e della formazione dei professionisti.

«Gli strumenti di Ai funzionano quando si sa come integrarli e utilizzarli: un punto che non riguarda solo il legal, ma qualsiasi tipo di industry. Per questo lavoriamo molto con le Università italiane, affinché queste competenze diventino parte dei percorsi accademici e le professionalità siano “recettive”», afferma Alessandra Bini, direttore affari legali di Ibm Italia.

«Oggi tutti i maggiori atenei prevedono un focus sull’information technology e hanno in corso riflessioni dal punto di vista legale e tecnico. Anzi – aggiunge Bini – se si eccettua il traino di chi opera anche a livello internazionale, le global law firm, l’attenzione si manifesta ora più a livello accademico che negli studi stessi». Che paiono quasi in atteggiamento di difesa, nonostante l’interesse degli Ordini e delle associazioni di categoria.

Sul campo, però, non solo è tramontata la figura del mentore, cui il tirocinante si affidava per la formazione tecnica e deontologica, ma l’intelligenza artificiale è già in grado di sostituire attività tipicamente riservate ai praticanti, come la ricerca analitica dei precedenti o altri dati usati nelle controversie giuridiche. E in generale, da più parti si sottolinea la necessità di un cambio di paradigma: meno studio mnemonico, ripetitivo, più capacità (e velocità) di analisi critica, visto che si dispone di maggiori risorse.

«La trasformazione digitale nelle tecniche della pratica forense coinvolge direttamente anche i contenuti e i metodi di un fenomeno che può essere definito tecnodiritto», commenta Paolo Moro, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Padova. «Se il livello di conoscenza è alto – spiega Moro – bisogna alzare quello della competenza, per assorbire un impatto che è duplice: da un lato converge sul diritto (positivo), dall’altro riguarda le metodologie. Perché il cambiamento che oggi è anticipato dai grandi studi legali diverrà presto comune a tutta l’avvocatura».

Sorge dunque l’esigenza di ripensare le professioni forensi alla luce dell’interazione tra uomo e macchina, di forgiare profili tecnico-legali altamente qualificati, per far fronte alla sfida delle disruptive legal technologies, come sostiene Richard Susskind.

«È l’emersione di una nuova figura di avvocato – dice il professor Moro –. Un avvocato ibrido, che riprende la sua vocazione retorica interpretando nuovi ruoli professionali e che conosce in forma metadisciplinare i problemi giuridici e i criteri logici delle tecnologie esponenziali utilizzate».

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