Rapporti di lavoro

Negli Stati Uniti i codici aziendali prevedono anche il licenziamento

di Riccardo Barlaam

Negli Stati Uniti è più facile trovare lavoro. Ma è più facile essere licenziati. Una regola che vale anche per l’uso dei social media, per il tempo eccessivo passato nelle piazze virtuali che può limitare la produttività, ma soprattutto per i post o i blog, le foto e i video che possono in qualche modo danneggiare l’immagine dell’azienda per la quale si lavora.

I casi di licenziamenti non mancano. Come quello di Nikolaos Balaskas, professore universitario a New York, ha perso la cattedra dopo un post antisemita (”gli ebrei sono guidati dal diavolo”), diventato virale. O quello di Connie Levitsky, commessa part time in una grande catena di abbigliamento femminile, che su Facebook scrisse: «Conquisterò il mondo vestendo una donna grassa alla volta».

La legislazione sul lavoro nella maggior parte degli stati parte dal presupposto che le relazioni tra datore di lavoro e dipendente siano basate su un rapporto di fiducia volontario (will employment states). Ciò significa che un dipendente è libero di abbandonare in qualsiasi momento un lavoro. E così anche il datore di lavoro che può interrompere il rapporto per qualsiasi ragione, se non viola le leggi previste a tutela del lavoratore: il licenziamento ad esempio non può avvenire se basato su discriminazioni di razza, colore della pelle, sesso, religione, età o disabilità in aperta violazione al Titolo VII del Civil Rights Act.

Da qualche tempo si sono aggiunti anche i social media nelle normative giuslavoristiche. Un lavoratore può essere licenziato se rivela informazioni confidenziali sulla sua azienda sui social media, così come segreti commerciali, o informazioni sui bilanci, sui clienti e in generale se mette in cattiva luce la società. Anche i post personali pubblicati al di fuori dell’orario di lavoro che danno un’immagine negativa del lavoratore, mentre beve alcolici ad esempio, o con foto dal contenuto inappropriato che danneggiano indirettamente l’immagine della società, possono condurre al licenziamento.

Ci sono società che hanno adottato un Codice di condotta per i social media che viene fatto firmare a tutti i dipendenti. Alcune aziende arrivano a proibire l’uso degli smartphone personali o dei social media durante l’orario di lavoro perché tendono a rendere meno produttivi i dipendenti. In questi casi il semplice fatto di entrare su un social durante l’orario di lavoro, nel momento in cui si viene pagati per compiere una determinata attività, viola la policy aziendale e quindi rende il dipendente soggetto a un possibile procedimento disciplinare che può portare fino al licenziamento.

Facebook, Instagram, Twitter, LinkedIn ma anche YouTube o un blog. Ci sono stati casi di licenziamento per post violenti, estremamente polemici, discriminatori su razza, sesso o religione, con contenuto razzista o esplicitamente sessuale. Un ingegnere di Google nell’estate del 2017 ha perso il lavoro dopo che aveva postato un memo sulla bacheca digitale aziendale nel quale sosteneva che le donne hanno una tendenza a sviluppare nevrosi, un fatto, secondo lui, che le rende meno adatte ad avere ruoli da ingegnere come gli uomini.

Il National Labor Relations Act protegge i diritti dei lavoratori di postare “informazioni limitate” sul proprio lavoro. Qualcuno ha provato ad appellarsi al primo emendamento della Costituzione americana, che assicura la libertà di parola, ma non è bastato a salvargli il posto. Come è successo a un’infermiera di Sacramento che su Facebook, commentando l’uccisione di un afroamericano disarmato a un controllo di polizia nella sua città aveva scritto: «Se l’è cercata». Immediatamente licenziata con una lettera di scuse pubblica dell’ospedale che ricordava il rispetto dovuto alla diversity da parte di tutti i suoi operatori.

Tuttavia stare sui social network è inevitabile, anche la carriera ne risente. Secondo un sondaggio di CareerBuilder, il 70% dei datori di lavoro usano i social media per fare la prima selezione quando devono assumere e cercare determinati profili. Una percentuale che era di appena l’11% nel 2006. A significare ormai l’importanza dei social nel recruitment. L’affidabilità di un lavoratore dicono i cacciatori di teste parte dalla mente ma arriva fino alle dita che si muovono su una tastiera. Ogni post è un riflesso del proprio carattere. E di solito la prima impressione che un datore di lavoro ha di un candidato, prima ancora del colloquio, arriva dalla sua storia sui social, dalla sua reputazione e dalla sua popolarità. Il National Labor Relations Board ha pubblicato una serie di linee guida per i lavoratori e l’uso dei social. Il primo consiglio, su tutti: non smettete di essere adulti sul web, ogni commento o informazione personale che condividete su Internet vive per sempre.

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