Rapporti di lavoro

L’allattamento non fa maturare la pausa pranzo

di Antonino Cannioto, Giuseppe Maccarone

La pausa pranzo spetta agli addetti che effettuano una prestazione effettiva di lavoro superiore a 6 ore. E per raggiungere tale soglia non valgono i permessi giornalieri di allattamento anche se gli stessi vengono considerati dalla legge (articolo 39, comma 2, del decreto legislativo 151/2001) ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione dell’attività. Lo ha chiarito il Ministero del Lavoro nella risposta a interpello 2/2019 diffusa ieri.

I tecnici ministeriali sono stati chiamati a pronunciarsi a seguito di una istanza dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) in merito al diritto alla pausa pranzo, ovvero al buono pasto o alla fruizione del servizio mensa, da parte delle lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri previsti dall’articolo 39 del Testo unico sulla tutela della maternità e paternità.

La richiesta prendeva lo spunto dalla circostanza che i riposi in questione sono considerati dalla legge ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione dell’attività. Il caso specifico si riferisce a una lavoratrice che è stata presente al lavoro per 5 ore e 12 minuti avendo poi fruito – per la restante parte del tempo - dei riposi orari giornalieri collegati alla nascita del bambino. L’Ispra si è rivolto al ministero per capire se in tale evenienza i permessi per allattamento devono essere computati come orario di lavoro effettivo e quindi riconoscere alla lavoratrice anche la pausa pranzo.

Il ministero esclude, come anticipato, che nella circostanza si debba riconoscere l’intervallo in relazione ai contenuti e alle differenti finalità delle norme di riferimento. L’articolo 8 del Dlgs 66/2003 stabilisce, infatti, il diritto del lavoratore a una pausa, finalizzata al recupero delle proprie energie psico-fisiche, durante l’intervallo temporale stabilito dalla contrattazione collettiva.

L’articolo 39 del testo unico sulla tutela della maternità e paternità vuole favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre il diritto a una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire il figlio, entro il primo anno di età dello stesso. La norma, peraltro, non specifica la collocazione temporale dei riposi.

L’analisi coordinata delle due disposizioni e la finalità della pausa pranzo portano i tecnici ministeriali ad adeguarsi agli orientamenti del dipartimento della Funzione pubblica e dell’agenzia delle Entrate e a escludere che una presenza della dipendente nel luogo di lavoro per meno di sei ore dia diritto alla pausa.

L'interpello n. 2/19 del ministero del Lavoro

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