Rapporti di lavoro

Addio al posto fisso: la lezione delle start up

Su circa 1,9 milioni di lavoratori delle professioni regolamentate aderenti al Comitato unitario professioni ci sono 550mila liberi professionisti

di Adriano Lovera

Da dipendente ad autonomo, o perché no, imprenditore. I professionisti italiani sono sempre meno innamorati del posto fisso, almeno per chi ce l’ha. Seguono il mercato, esplorano le possibilità e se fiutano il percorso giusto si mettono in proprio. Oggi, su circa 1,9 milioni di lavoratori delle professioni regolamentate aderenti al Cup (Comitato unitario professioni), circa 442mila sono dipendenti pubblici (in gran parte nella sanità), 162mila nel privato, circa 700mila dipendenti di studi tra iscritti e non agli Ordini e 550mila liberi professionisti.

Italia, regno degli autonomi

La tendenza a mettersi in proprio è ancora difficile da misurare in cifre. Ma esiste. Anche perché l’Italia continua a essere il regno degli autonomi, il 21% degli occupati, contro una media europea del 14,3%, come approfondito a fianco. Chi e perché si mette in proprio? La spinta è sempre un mix tra necessità, motivazione e opportunità. «In prima fila metterei gli ingegneri, a patto che abbiano le competenze giuste», sostiene Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni. «Nel mercato c’è fame di servizi che hanno a che fare con la digitalizzazione, con i big data, il web design, ma anche di profili che si occupino di certificazione, risparmio energetico e di sicurezza. Tanti ingegneri si sono attrezzati per offrirli, sotto forma di libera professione o con carattere di impresa. Anche se, bisogna ammettere, inventare una nuova modalità di lavoro per alcuni è stata una necessità. Tanti sono stati espulsi dal settore dell’edilizia, che fatica ancora a riprendersi».

Su questi versanti possono spendersi anche tanti geometri. «Mentre molti consulenti del lavoro, che prima erano dipendenti d’azienda, adesso operano in autonomia su alcuni filoni sempre più richiesti, come la fornitura di servizi integrati di welfare», aggiunge Stella.

E l’addio al posto fisso riguarda sempre di più anche i medici. «Diversi professionisti della sanità, anche quando non sono troppo lontani dalla pensione, preferiscono lasciare l’ospedale e proseguire come autonomi. Per una questione di soddisfazione personale e maggior guadagno», dice ancora il presidente di Confprofessioni.

Le controtendenze

Più complicato, anzi generalmente inverso, il percorso per avvocati e commercialisti.

«In primo luogo, sono tantissimi e la concorrenza è forte», sottolinea Cetti Galante, amministratore delegato di Intoo, società del gruppo Gi Group specializzata in outplacement e percorsi di crescita personale.

«Tra queste professioni intellettuali, il trend era visibile alcuni anni fa, quando era frequente abbandonare lo studio di cui si era socio o collaboratore, per tentare la carriera in autonomia, dopo essersi specializzato su un versante particolare, ad esempio la finanza. Oggi, legali, tributaristi, giuslavoristi e altri professionisti del settore tendono a mettersi insieme, perché se l’attività resta su dimensioni troppo piccole si corre il rischio di sparire».

La strada dell’autonomia

Ma qual è la ricetta giusta per mettersi in proprio? «Distinguiamo due casi. Quello più frequente - specifica Stella - è il lavoratore iscritto a un Ordine professionale che diventa autonomo, ma per restare nel proprio campo di competenze. In questo caso, bisogna puntare innanzitutto su alcuni vantaggi della nuova condizione, come la flessibilità degli orari, la possibilità di operare da casa o in un coworking, senza spese folli per l’ufficio, e sulla convenienza fiscale della flat tax».

Le regole d’oro

Ma si può pensare anche più in grande, cioè dar vita a un’impresa, perché si è annusata una nicchia di mercato in cui infilarsi o, perché no, per dedicarsi completamente ad altro.

«Prima regola, non farsi spaventare dall’impegno economico. Anche 50mila euro bastano per partire. Seconda, oggi chi si occupa di sviluppare imprese, dagli incubatori ai venture capital agli acceleratori di qualsiasi forma, ha letteralmente fame di idee nuove. Le porte sono spalancate. Anche perché, al contrario di quanto si pensi, le start up hanno un grande tasso di mortalità ma quelle di successo e che resistono alla fase di partenza sono fatte da 50enni, non da ragazzini», dice Galante di Intoo.

«Allo stesso tempo, non bisogna innamorarsi dell’idea iniziale. Può fallire o modificarsi in corso d’opera: è necessario raccogliere quante più osservazioni e consigli possibile. Nessuno cada nell’illusione di avere l’intuizione del secolo, da sviluppare in segreto. È un atteggiamento che non porta da nessuna parte».

Dalla passione al business

E c’è un altro aspetto da considerare, cioè se sia possibile trasformare una semplice passione in un’attività, meglio se di nicchia, così da cambiare del tutto vita. «Nel corso della carriera ho collezionato una serie di casi straordinari», testimonia l’amministratore di Intoo. «Una manager, ex Olivetti, che adesso commercia sedie antiche, prodotte a mano da artigiani veneti. Ha l’agenda piena e si diverte. O professionisti che hanno trasformato il vigneto e la casa in campagna in una vera impresa vitivinicola, con annesso relais. Oppure un 55enne, uscito da una grande azienda, che aveva la passione per il restauro degli strumenti antichi. Si è specializzato e ne ha fatto un mestiere».

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