Rapporti di lavoro

Contagi sul lavoro, i limiti necessari alla «colpa» penale

di Daniele Piva

Con la ripartenza si è aperto il dibattito sulle responsabilità penali del datore di lavoro e dell’impresa per infortunio da Covid, viste anche le oltre 43mila denunce già pervenute all’Inail. Il quadro normativo offre spunti per chiarire meglio i termini della questione.

Iniziando dal distinguere misure di contenimento del contagio disciplinate, per il periodo 18 maggio-31 luglio 2020, dal Dl 19/2020 e 33/2020 e ora, sino al 14 giugno 2020, del Dpcm del 17 maggio, dalle regole le in materia igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro (Dlgs 81/2008) per le quali, in caso di violazione, si applicano le sanzioni amministrative dell’articolo 4 Dl 19/2020 (ora richiamate dall’articolo 2 del Dl 33/2020) secondo il procedimento della legge 689/1981 (salvo le violazioni di quarantena) e quelle contravvenzionali del Dlgs 81/2008 sottoposte al regime di prescrizione obbligatoria dell’articolo 301 dagli organi di vigilanza.

Nel solco di questa distinzione stanno i protocolli di sicurezza sottoscritti tra Governo e sindacati il 24 aprile che inseriscono nella normativa il contenimento del contagio il cui mancato rispetto determina la sospensione delle attività (articolo 1, comma 15, Dl 33/2020).

Sennonché - pur trattandosi di linee guida precauzionali diverse dalle norme tecniche e buone prassi- alcune prescrizioni interferiscono con obblighi imposti dal Dlgs 81/2008 in tema, ad esempio, di informazione (articolo 36 del Dlgs 81/2008), pulizia e sanificazione (articolo 64, comma 1, lettera d, e allegato IV, punto 1.1.6), sorveglianza sanitaria (articolo 18, lettera a, del Dlgs 81/08 ora richiamato nell’articolo 83 del Dl 34/2020) precauzioni igieniche personali (articolo 18, comma 1, lettera f) o, financo di dispositivi di protezione individuale (articolo 18, comma 1, lettera d). Ne deriva che, in tal caso, la contestazione sarà ancora una volta contravvenzionale con prescrizione dell’articolo 301 del Dlgs 81/2008, stante la clausola di riserva che caratterizza l’illecito amministrativo (salvo che il fatto costituisca reato diverso dall’articolo 650 del Codice penale).

Quanto agli infortuni o alle malattie professionali da Covid, non può dubitarsi della configurabilità di una responsabilità penale del datore di lavoro (articolo 589 e 590 del Codice penale) ed eventualmente, nei casi di morte o lesioni gravi o gravissime, di quella amministrativa dell’ente (articolo 25-septies del Dlgs 231/2001), in rapporto all’omessa valutazione o prevenzione del rischio generico biologico, come desumibile dalla normativa di settore.

Né alcun rilievo ha qui l’articolo 42 del Dl 18/2020 che, come chiarito dalla nota Inail del 15 maggio e nella circolare 22 del 20 maggio, definisce infortunio il contagio del virus «in occasione di lavoro» solo ai fini dell’erogazione di un indennizzo svincolato dalla responsabilità penale del datore di lavoro rispetto alla quale, il vero problema resta quello dei presupposti e, soprattutto, dei limiti. Premesso che dovrà dimostrarsi il nesso causale, il rischio di un allargamento incontrollato dell’incriminazione è connesso al giudizio di colpa.

Primo, perché alcune prescrizioni dei Protocolli stabiliscono possibilità e non obblighi (ad esempio sulla rilevazione della temperatura corporea ) ovvero incentivi ( smart working) ovvero hanno contenuto elastico rimettendo persino al destinatario l’individuazione della misura.

Secondo, perché potrebbe residuare l’ombra dell’articolo 2087 del codice civile per la mancata attuazione di ulteriori e più incisive misure connesse alle peculiarità dell’organizzazione, ove contestata in via alternativa a quella riguardante cautele tassativamente indicate ovvero ritenuta dal giudice a seguito di diversa qualificazione del fatto.

Auspicabile quindi che si affermi in via legislativa il principio secondo cui proprio i protocolli di sicurezza, unitamente alle corrispondenti prescrizioni del Dlgs 81/2008, esauriscono, quanto al rischio di infortunio da Covid, le misure cui fa generico riferimento la norma codistica. Conclusione, questa, che sembrava dapprima rafforzata dagli articoli 1, comma 14 del Dl 33/2020 e 2 del Dpcm 17 maggio 2020 in virtù dei quali si subordina, una tantum, lo svolgimento delle attività economiche, produttive e sociali al rispetto dei protocolli di sicurezza e che oggi trova riscontro nel nuovo articolo 29-bis del decreto liquidità (Dl 23/2020) secondo cui «ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo dell’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nei protocolli nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste».

A meno di voler privare la disposizione di ogni effetto, significa che, a queste condizioni, alcun rimprovero potrà più muoversi, neppure nell'ottica di un'interpretazione costituzionalmente orientata, al datore di lavoro per la generica inosservanza di ulteriori e indeterminati obblighi di prudenza, perizia o diligenza. Lo stesso, del resto, già da tempo avviene in ambito antinfortunistico con riguardo al controllo imposto al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite che si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo.

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