Rapporti di lavoro

Rischi penali per il divieto di licenziare

di Ranieri Romani

Il divieto di licenziamento introdotto dal decreto legge 18/2020 sta creando disagi alle aziende che hanno cessato l'attività o che intendono cessarla a breve. Come riferito qualche settimana fa da Danilo Papa (a capo della direzione centrale coordinamento giuridico dell'Ispettorato nazionale del lavoro) in occasione di un'audizione alla Commissione lavoro del Senato, molte imprese si sono infatti rivolte all'Inl per avere chiarimenti in merito.

Occorre premettere che, nel definire il campo di applicazione del divieto di licenziamento, il legislatore ha fatto riferimento ai recessi per «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 604/1966»: da ciò discende che devono intendersi ricompresi in tale divieto tutti i licenziamenti dettati da «ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». In assenza di specifiche esclusioni, è stato ritenuto che ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba considerarsi vietato, incluso quello irrogato per cessazione di attività.

Non può, però, essere questa l'interpretazione corretta, posto che la decisione di cessare un'attività non deve poter essere impedita dal legislatore, nemmeno con una norma a carattere eccezionale e transitorio come quella che ha disciplinato l'attuale divieto di licenziamenti (sempre che eccezionale e transitoria possa definirsi una misura di 5 mesi, che probabilmente verrà prorogata per altro tempo): l'articolo 41 della Costituzione, nel tutelare la libertà di iniziativa economica privata, rende infatti libero il diritto di iniziare un'attività produttiva, di gestirla, ma anche di cessarla.

È per tale ragione che la cessazione dell'attività giustifica sia il licenziamento della lavoratrice madre (cioè quello irrogato sino all'anno di età del bambino) sia il recesso irrogato “per causa di matrimonio” (che, in base all'articolo 35 del Dlgs 198/2006, si presume essere quello irrogato nel periodo intercorrente tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni sino a un anno dopo la celebrazione): in entrambi i casi, se il datore di lavoro prova che il recesso è avvenuto per “cessazione dell'attività dell'azienda” (intesa come cessazione dell'intera attività aziendale e non solo di un'unità produttiva) il licenziamento è legittimo.

A conferma di tale interpretazione, si consideri che impedire all'impresa di licenziare i propri dipendenti nonostante la cessazione dell'attività aziendale (con conseguente mantenimento in vita delle relative posizioni fiscali e previdenziali nonché, in caso di mancato accesso agli ammortizzatori sociali, con l'obbligo di pagamento delle retribuzioni) è contrario ai principi del diritto concorsuale, in primis all'articolo 217 della legge fallimentare (bancarotta semplice), che punisce penalmente l'imprenditore che abbia ritardato la richiesta di fallimento aggravando il proprio dissesto. Anche un'interpretazione sistematica porta, quindi, a ritenere che i licenziamenti motivati dalla (effettiva) cessazione dell'attività aziendale siano esclusi dal divieto oggi in vigore.

Interpretando diversamente la norma, specie nell'ipotesi in cui il divieto dovesse essere prorogato fino a fine 2020, le aziende sarebbero a quel punto “costrette” a rimanere in vita per altri mesi per il solo fatto di non poter licenziare, con il rischio di aggravare il proprio dissesto e, quindi, di incorrere nel citato reato: è evidente che non possa essere questo lo scenario che si prospetta alle aziende.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©