Rapporti di lavoro

Perimetro già tracciato dalla sentenze della Corte di giustizia

Proporzionalità chiave di volta del diritto dell’Unione e anche parametro immancabile nella valutazione del quadro normativo interno sulla regolamentazione delle professioni. Lo ha chiarito nel corso degli anni, prima ancora della direttiva Ue 2018/958, la Corte di giustizia dell’Unione europea che, tassello dopo tassello, ha costruito un mosaico che delimita la discrezionalità degli Stati nelle scelte nel settore delle professioni.

I Paesi membri mantengono l’autonomia nella regolamentazione o nella deregolamentazione delle professioni, ma entro il perimetro disegnato dal diritto dell’Unione come interpretato dalla Corte Ue e, oggi, dalla direttiva e dal decreto legislativo, che impediranno l’ingresso di nuove regole volte a limitare l’accesso e l’esercizio della professione.

E proprio per il ruolo di Lussemburgo, l’intervento del legislatore Ue e poi di quello italiano, necessari per una procedura standard in tutta Europa, alla fine sono meno necessari di quel che sembra. Bastava e basta applicare quanto già stabilito, in più occasioni, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea. Lussemburgo, infatti, dell’applicazione del principio di proporzionalità (legato a doppio filo con quello di non discriminazione), richiamati dall’articolo 4 dello schema di decreto legislativo, ne ha fatto sempre una battaglia. Nel corso degli anni, gli eurogiudici hanno tracciato un percorso lineare che agli Stati sarebbe bastato seguire per rimuovere ogni restrizione che può ostacolare o rendere meno attrattivo l’esercizio del diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi per lo svolgimento di un’attività professionale regolamentata.

La Corte Ue, infatti, ha scolpito i principi poi ripresi nella direttiva, chiarendo che i parametri di compatibilità delle legislazioni nazionali con il diritto Ue impongono di non adottare misure applicabili in modo discriminatorio; di prevedere solo misure che siano giustificate da motivi di interesse pubblico e, soprattutto, siano conformi al principio di proporzionalità, che vuol dire non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo.

È questa l'essenza del principio - che dovrà guidare i soggetti regolatori nell’applicazione delle regole interne - applicabile alle professioni, fissata dalla sentenza del 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard. Gli eurogiudici, infatti, hanno chiarito che nella valutazione della proporzionalità è necessario accertare se non sia possibile sostituire talune condizioni con altre misure meno restrittive che permettano di conseguire lo stesso risultato. Il test di proporzionalità, inoltre, è stato cristallizzato dalla Corte anche per l’adozione di misure nazionali che limitano l’accesso alle professioni, inclusa quella notarile che pure è esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva 2005/36 sul riconoscimento delle qualifiche professionali, modificata dalla 2013/55 (causa C-47/08, sentenza del 24 maggio 2011).

L’Italia è finita varie volte nel mirino di Lussemburgo: gli eurogiudici, tra l’altro, hanno bocciato le regole interne finalizzate a condizionare l’esercizio, anche della prestazione dei servizi, a requisiti, incluso il possesso di una licenza in uno Stato dopo il superamento di un esame, bollati come sproporzionati rispetto allo scopo perseguito che, in un caso specifico, era la tutela del patrimonio storico e artistico (causa C-180/89).

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