Rapporti di lavoro

Per i giovani in Italia dieci anni di declino

di Eugenio Bruno, Michela Finizio, Valentina Melis

Evitare che gli effetti della pandemia da Covid-19 facciano aumentare lo svantaggio dei giovani italiani rispetto ai coetanei del resto d’Europa sul fronte dell’istruzione, del lavoro e delle chance di raggiungere l’indipendenza economica e familiare: sarà questa una delle sfide principali del governo Draghi, per ammissione dello stesso premier. Anche per invertire il trend demografico negativo, che è l’effetto finale di questi ritardi, e che secondo le stime dell’Istat sul 2020 potrebbe portare l’Italia a chiudere l’anno sotto la soglia dei 400mila nuovi nati per la prima volta dall’unità nazionale.

Il forte divario Nord-Sud

L’analisi del Sole 24 Ore del Lunedì su 18 indicatori legati alla famiglia, all’istruzione e al lavoro, considerati all’inizio e alla fine dell’ultimo decennio, rivelano qualche passo avanti: ad esempio sull’accesso ai servizi per l’infanzia, sulla riduzione dell’abbandono scolastico, sulle competenze degli studenti in matematica. Ma anche molti gravi ritardi.

Peraltro, se si guarda allo stesso dato declinato nel territorio, emerge prepotentemente il divario tra Nord e Sud, come se l’Italia fosse divisa in due, anche per i giovani. Ad esempio, i ragazzi che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet) sono aumentati nel 2020 al 23,4% e l’Italia è il Paese peggiore in Europa su questo fronte. Al Nord, però, i Neet sono il 16,8%, cioè due punti sopra la media Ue, mentre al Mezzogiorno sono il 32,8 per cento. La stessa distanza emerge nella disoccupazione giovanile nella fascia 15-29 anni, dove la media nazionale del 21,7% è abbondantemente superata al Sud - il 35,3% dei ragazzi in quella fascia di età non lavora -, mentre non è raggiunta al Nord, dove la percentuale migliora di oltre sette punti (14,1%).

Un divario che nasce a scuola: nelle competenze in lettura e matematica gli studenti del Nord si piazzano sopra il punteggio medio dei coetanei nei Paesi Ocse (sia nel 2009, sia nel 2018), mentre quelli del Sud restano sotto questa soglia. Prosegue all’università, visto che restiamo penultimi in Europa per laureati nella fascia d’età 30-34 anni, a 14 punti di distanza dalla media Ue. E si espande anche al termine degli studi come dimostra la mobilità internazionale dei nostri ”dottori”.

La difficoltà di raggiungere l’indipendenza

Ne consegue che, rispetto ai giovani europei, gli italiani fanno molta più fatica a trovare la propria indipendenza dalla famiglia d’origine. Nella fascia d’età fra 18 e 34 anni, il 64,3% vive ancora con almeno un genitore, contro una media Ue del 48,2 per cento. Inoltre, mentre la percentuale Ue è aumentata di meno di un punto in dieci anni, quella italiana è cresciuta di quasi sei punti. La stessa difficoltà emerge dai dati sui matrimoni e sull’arrivo del primo figlio: chi si sposa, lo fa (in media) quasi a 39 anni e l’età delle madri al parto è cresciuta nell’ultimo decennio da 31 a 32 anni.

A frenare i giovani nel “mettere su famiglia” è sicuramente la prolungata precarietà lavorativa, dovuta alla lunga permanenza nell’ambito di tipologie di lavoro “flessibile”: se si guarda alla platea dei lavoratori a termine e dei collaboratori fra 25 e 34 anni, si scopre che il tasso di coloro che sono in questa condizione da oltre cinque anni si è ridotto rispetto al passato, ma resta al 17 per cento, e al Sud arriva a quasi un giovane su quattro.

Le carenze di welfare e formazione

A questo si aggiunge anche un welfare spesso carente nelle politiche di sostegno alle famiglie con figli. Ad esempio, il tasso di copertura dei servizi per l’infanzia rivolti ai bambini tra 0 e 3 anni (asili nido, pubblici e privati, e servizi integrativi) sfiora il 26% e fatica a raggiungere gli obiettivi europei del 33% (adottati dal Consiglio europeodi Barcellona del 2002). Per scendere al 13,1% prendendo in considerazione i soli asili pubblici e convenzionati.

La somma di tutti questi fattori rende cruciale l’appuntamento con il Recovery Plan. Che almeno sul fronte giovani potrebbe subire una profonda riscrittura. Non fosse altro che per recepire il sesto pilastro previsto dall’ultimo regolamento europeo («Politiche per la prossima generazione, l’infanzia e i giovani», come l’istruzione e le competenze), di cui nel documento lasciato in eredità dal governo Conte non c’è traccia.

Sul tavolo c’è la proposta del Consiglio nazionale giovani e della Fondazione Bruno Visentini (Il Sole 24 Ore del 14 febbraio) secondo cui, già rimodulando il Piano sulla base delle misure e delle risorse contenute in legge di Bilancio si passerebbe dai 4,5 miliardi oggi sparpagliati in orizzontale a oltre 20 miliardi belli, verticali e pronti per l’uso del sesto pilastro.

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