Contenzioso

Rassegna della Cassazione 21 agosto - 25 settembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento di dipendente di un istituto di credito

Comunicazione del licenziamento

Non c'è mobbing senza dolo specifico

I presupposti del diritto alla qualifica superiore

Secondo licenziamento per superamento del periodo di comporto

Licenziamento di dipendente di un istituto di credito

Cass. Sez. Lav. 17 settembre 2014, n. 19612

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Servello; Ric. D.N.A.; Contr. I.S. s.p.a.;

Dipendente di un istituto di credito - Rivelazione ad un cliente dell'esistenza di accertamenti sul suo conto da parte dell'Autorità Giudiziaria - Licenziamento - Giusta causa - Lesione vincolo fiduciario - Sussistenza

E' un legittimo interesse del datore di lavoro quello di poter contare su lavoratori che eseguano correttamente la prestazione richiesta nel rispetto delle direttive aziendali senza esporre il datore medesimo a potenziali responsabilità, civili o penali, ex art. 2049 c.c. Qualora un dipendente deduca di aver eseguito delle direttive imprenditoriali, che imponevano anche la commissione di illeciti, al fine di andare esente da responsabilità è tenuto a provare di aver eseguito un ordine o a dimostrare l'esistenza di cogenti prassi aziendali in tal senso.

NOTA - La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda avanzata da una dipendente di un istituto di credito, volta ad ottenere la reintegra nel posto di lavoro per illegittimità del licenziamento disciplinare intimato, e condannato la lavoratrice a restituire le somme percepite a titolo risarcitorio in esecuzione della sentenza impugnata. Assumeva la Corte di appello che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Roma, la condotta posta in essere dalla dipendente - aver riferito, ad un cliente della filiale da lei diretta, della richiesta di accertamenti bancari sul suo conto corrente disposti dall'Autorità Giudiziaria penale - integrava un'infrazione talmente grave da giustificare il licenziamento.

Avverso tale statuizione la lavoratrice propone ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2105 c.c., nella parte in cui la sentenza di appello ha ravvisato una violazione talmente grave ai doveri di ufficio da meritare la sanzione espulsiva. Rileva, inoltre, la ricorrente di non aver potuto immediatamente visionare la richiesta di accertamenti e di aver supposto che gli stessi fossero stati disposti dall'A.G. civile nell'ambito di un giudizio di separazione personale fra coniugi; inoltre, trattandosi di un cliente di particolare importanza (Direttore dei Monopoli di Stato), ella doveva, in base alle direttive aziendali curarne personalmente la posizione; ancora, censura la ricorrente, che la sentenza avrebbe errato nella parte in cui ha evocato la violazione del concetto di "segretezza bancaria" che attiene, non al rapporto tra banca e dipendente, bensì a quello tra banca e cliente, rapporto, al contrario, salvaguardato dalla ricorrente.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2106 c.c. per avere la corte di merito ravvisato l'esistenza di una giusta causa di recesso nonostante il rapporto fiduciario con l'istituto non fosse stato leso (tanto che a seguito della reintegra la banca le aveva affidato, per oltre tre anni, la direzione di un'altra importante filiale). Infine, lamenta la ricorrente che la corte di appello ha tralasciato di considerare che l'A.G. aveva adottato nei suoi confronti un mero provvedimento interdittivo, della durata di pochi giorni, e che all'esito del procedimento penale la ricorrente era stata prosciolta dall'accusa di favoreggiamento.

La Corte di Cassazione respinge integralmente il ricorso. Premette la Suprema Corte che, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, è necessario valutare se la violazione addebitata abbia compromesso irrimediabilmente l'affidamento sul futuro adempimento della prestazione lavorativa, in funzione della realizzazione di leciti interessi aziendali.

Ed è un interesse lecito - prosegue la Corte - per il datore di lavoro, ed in specie per un istituto di credito, quello di poter contare su lavoratori che eseguano correttamente la propria prestazione, senza esporre l'azienda a potenziali responsabilità ex art. 2049 c.c., norma per la quale le conseguenze di un illecito aquiliano commesso da un dipendente, nell'esercizio dell'attività lavorativa, possono ricadere sul datore di lavoro convenuto in un giudizio civile o penale.

Conseguentemente nel caso di specie, quel che è risultato leso, non è stato il segreto bancario tra istituto di credito e cliente, bensì l'affidamento della banca sul futuro corretto adempimento delle mansioni affidate alla ricorrente.

Per quanto attiene alla particolare attenzione che la dipendente avrebbe mostrato nei confronti del "prestigioso" cliente, la Corte afferma di non ignorare che alcuni istituti di credito (o taluni dei loro dirigenti) incoraggino i propri dipendenti affinché curino i clienti di maggior riguardo anche mediante aiuti illeciti, come prospettato nel caso in esame. Però, precisa la Cassazione, in tal caso il dipendente per andare esente da responsabilità, deve provare di aver eseguito un ordine o dimostrare l'esistenza di cogenti prassi aziendali in tal senso. Nessuna prova è stata fornita al riguardo dalla ricorrente.

La lesione del vincolo fiduciario, poi, a parere della Corte, non viene meno in base alla circostanza che la ricorrente avesse ritenuto che gli accertamenti fossero stati disposti dall'Autorità Giudiziaria civile, anziché penale, perché ciò non ne esclude la gravità.

Altresì irrilevante è la circostanza che, a seguito della reintegra, alla ricorrente fosse stata affidata la direzione di un'altra importante filiale, trattandosi di un'assegnazione disposta ai sensi dell'art. 2103 c.c., non potendo la lavoratrice essere dequalificata a seguito dell'ottemperanza alla sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva.

Infine, è ininfluente che la dipendente sia stata sottoposta, nell'ambito del procedimento penale a suo carico, ad una misura interdittiva di pochi giorni, poiché il giudizio cautelare penale risponde ad esigenze del tutto diverse da quello civile.




Comunicazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 24 settembre 2014, n. 20106

Pres. Vidiri; Rel. Bandini; Ric. G.M.; Controric. D.S.S.r.l.

Lavoro- Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Forma scritta ex art. 2 della legge n. 604 del 1966 - Modalità specifiche di comunicazione - Previsione - Insussistenza

L'art. 2 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 2 della legge n. 108 del 1990, 2 della legge n. 108 del 1990, impone che il licenziamento sia comunicato per iscritto al lavoratore, senza tuttavia prescrivere particolare modalità della predetta comunicazione. E' necessario e sufficiente che l'atto di recesso datoriale, purché redatto in forma scritta, sia portato a conoscenza del lavoratore.

NOTA - Con sentenza del 2013 la Corte d'Appello di Napoli rigettava il reclamo proposto da un lavoratore nei confronti di una Società avverso la pronuncia di prime cure che aveva respinto l'impugnazione del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto. A sostegno del decisum la Corte Territoriale aveva osservato che:

- alla luce della documentazione presente nella produzione di parte appellata, era emersa la prova dell'adozione della forma scritta del licenziamento, oltre che della rituale comunicazione dell'atto, inviato a mezzo raccomandata all'indirizzo comunicato alla Società dal lavoratore e poi rinnovato all'esito negativo della notifica (non avendo l'agente postale rinvenuto il ricorrente, risultato "sconosciuto") al precedente domicilio, dovendo farsi applicazione della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. e non avendo il lavoratore svolto con querela di falso la doglianza secondo cui l'agente postale non si sarebbe mai recato presso il suo domicilio;

- il dipendente della Società che aveva preventivamente informato il lavoratore della decisione aziendale, nella sua deposizione, aveva sempre fatto riferimento all'esistenza di una lettera scritta di licenziamento; il contenuto di tale deposizione verteva solo sulla circostanza della consegna dell'atto al lavoratore e, pertanto, non era volta a sostituire la prova dell'esistenza della forma scritta.

Il lavoratore ricorreva per Cassazione, lamentando che:

- erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto provata l'avvenuta comunicazione del licenziamento in forza della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., in quanto la raccomandata con avviso di ricevimento contenente la lettera di licenziamento non era stata recapitata al destinatario, essendo stato il plico restituito al mittente per avere l'agente postale dichiarato che esso ricorrente era sconosciuto al civico a cui il plico stesso era stato indirizzato;

- stante la natura di atto unilaterale ricettizio del licenziamento e richiedendosi al riguardo la forma scritta ad substantiam (L. n. 604 del 1966, art. 2), erroneamente la Corte Territoriale aveva ritenuto ammissibile la testimonianza resa dal dipendente della parte datoriale, che aveva dichiarato di avere consegnato la lettera di licenziamento ad esso ricorrente, non essendo possibile provare per testimoni gli atti per i quali era stata richiesta la forma scritta ad substantiam (art. 2725 c.c., comma 2), nè dimostrare per testimoni la confessione stragiudiziale, sia esplicita che implicita (art. 2735 c.c., comma 2).

La Suprema Corte ha rigettato il suddetto motivo di ricorso, rilevando che non sussisteva nel caso di specie la preclusione di cui all'art. 2725 c.c., co. 2, posto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la L. n. 604 del 1966, art. 2 come modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 2 esige che il licenziamento sia comunicato per iscritto al lavoratore, senza prescrivere particolare modalità della comunicazione stessa, essendo necessario e sufficiente che l'atto di recesso datoriale, purchè redatto in forma scritta, sia portato a conoscenza del lavoratore (cfr. Cass., n. 12499/2012; cfr. altresì, Cass. n. 17652/2007).

Nel caso di specie la suddetta testimonianza non verteva sulla sussistenza dell'atto scritto di licenziamento, ma unicamente sull'avvenuta consegna di tale atto al destinatario.

Con ulteriore motivo, il ricorrente lamentava che la Corte Territoriale avesse escluso l'illegittimità del licenziamento per l'omissione del tentativo obbligatorio di conciliazione, sul rilievo che l'atto di recesso si fosse perfezionato prima della data di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, modificativa della L. n. 604 del 1966, art. 7, senza però indicare a quale fatto generatore di tale effetto avesse voluto riferirsi.

La Suprema Corte ha rigettato tale motivo di ricorso, rilevando che la normativa a cui il ricorrente aveva fatto riferimento per desumerne l'illegittimità del licenziamento (L. n. 604 del 1966, art. 7 come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 40) è stata ulteriormente modificata dal D.L. n. 76 del 2013, art. 7, comma 4, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 99 del 2013, che ha sostituito la L. n. 604 del 1966, art. 7, comma 6 ridetto prevedendo in particolare, con disposizione di inequivoca natura interpretativa, che "La procedura di cui al presente articolo non trova applicazione in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110 c.c. (...)". Pertanto, a parere della Corte, viene ad essere esclusa in radice la pretesa causa di illegittimità del licenziamento.




Non c'è mobbing senza dolo specifico

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2014, n. 20230

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; Ric. N.P.M; Controric. CONI Servizi S.p.a.;

Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Mobbing - Fattispecie - Elementi costitutivi - Intento persecutorio - Elemento soggettivo - Responsabilità del datore di lavoro.

Il mobbing è una figura complessa che designa un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

In particolare, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono, quindi, ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

NOTA - La Corte d'Appello di Roma ha respinto il gravame proposto da una lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale di Frosinone, che aveva dichiarato prescritto il diritto della dipendente a chiedere l'annullamento del licenziamento intimatole. La Corte ha, altresì, rigettato la domanda di risarcimento degli asseriti pregiudizi patiti dalla lavoratrice per effetto di un presunto mobbing, argomentando che tanto le allegazioni della ricorrente, quanto le prove da quest'ultima dedotte erano inidonee, poiché generiche, a dimostrare l'esistenza di un nesso di causalità tra la pretesa condotta persecutoria ed i riferiti danni all'integrità psico-fisica della ricorrente, tenuto anche conto che dalla documentazione medica prodotta in atti non erano in alcun modo desumibili gli eventi dai quali sarebbe scaturita la situazione di stress psicologico lamentata dalla dipendente.

La Corte di cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d'Appello, puntualizzando, tra il resto, che ai fini della configurabilità del mobbing in ambito lavorativo - inteso come quel complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo - debbono ricorrere, congiuntamente, molteplici elementi e, segnatamente, i seguenti: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Quanto all'onere della prova, la Suprema Corte ha ribadito che incombe sul soggetto che lamenta di esserne stato vittima dimostrare gli elementi costitutivi, sia oggettivi che soggettivi, del mobbing, nonché di comprovare l'esistenza di uno specifico nesso di causalità tra le prospettate azioni vessatorie e la dedotta lesione alla salute o alla dignità personale, specie con l'ausilio di documenti.

Alla stregua dei suddetti principî, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, censurando la mancanza, nell'atto introduttivo del giudizio, di allegazioni e produzioni documentali specifiche che attestassero una relazione causale fra condotte vessatorie, licenziamento e lamentati danni.




I presupposti del diritto alla qualifica superiore

Cass. Sez. Lav. 21 agosto 2014, n. 18122

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Matera; Ric. C.A.; Res. A.C.E.A. S.p.a.;

Lavoro subordinato - Mansioni - Diritto alla qualifica superiore - Presupposti

Ai fini del riconoscimento della qualifica superiore ex art. 2103 cod. civ., non è sufficiente che il dipendente provi di essere stato adibito alle mansioni corrispondenti per periodi di tempo che, complessivamente considerati, superino i tre mesi, essendo anche necessario che egli provi che la sostituzione è stata disposta per un'obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con qualifica inferiore; che il datore di lavoro ha avuto l'intento fraudolento di impedire la maturazione del diritto alla promozione; che l'assegnazione non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto.

NOTA - La Corte d'Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, negava il diritto del lavoratore al superiore inquadramento richiesto, nonché alle conseguenti differenze retributive.

La Corte, in particolare, premesso che la domanda del lavoratore era fondata su quattro diverse assegnazioni a mansioni superiori per periodi che, sommati, erano superiori a tre mesi, escludeva che il datore di lavoro, nel procedere a tali assegnazioni avesse avuto l'intento fraudolento di impedire la maturazione del diritto alla promozione o, comunque, avesse fatto uso distorto della disciplina dettata dall'art. 2103 cod. civ.

L'assegnazione a mansioni superiori era, infatti, avvenuta in periodi racchiusi in un intervallo di tempo molto ampio (pari a quasi cinque anni) e, almeno in due casi, per sostituire dipendenti assenti per malattia o per altre ragioni che comunque implicavano il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Avverso la decisione della Corte d'Appello il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, mentre la società resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ribadendo il consolidato orientamento in base al quale ai fini del riconoscimento della qualifica superiore ex art. 2103 cod. civ., non è sufficiente che il dipendente provi di essere stato adibito alle mansioni corrispondenti per periodi di tempo che, complessivamente considerati, superino i tre mesi, essendo anche necessario che egli provi che la sostituzione è stata disposta non per contingenti necessità dell'impresa, ma per un'obiettiva carenza o insufficienza di organico correlata ad una organizzazione del lavoro diretta ad utilizzare in modo duraturo le maggiori capacità di lavoratori assunti con qualifica inferiore.

Inoltre, è necessario che il ricorrente dimostri che il datore di lavoro ha avuto l'intento fraudolento di impedirgli la maturazione del diritto alla promozione e che l'assegnazione non ha avuto luogo per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto (v. Cass. 14 ottobre 2000, n. 13725).




Secondo licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 15 settembre 2014, n. 19400

Pres. Vidiri; Rel. Bandini; P.M. Matera; Ric. P.B.; Contr. U.M. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Diritto alla conservazione del posto - Infortuni e malattie - Superamento del periodo di comporto - Recesso del datore di lavoro - Tempestività - Onere del lavoratore - Valutazione - Criteri - Fattispecie

Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata. Costituisce, peraltro, onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza sì da far ritenere - eventualmente in concorso con altre circostanze di fatto significative - la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto

NOTA - Con sentenza di primo grado veniva accolto il ricorso proposto da una lavoratrice e affermata la nullità del licenziamento per superamento del periodo di comporto in quanto intimato nel periodo compreso tra l'inizio della gestazione e il compimento di un anno di età del bambino. A distanza di tre giorni dalla pronuncia del giudice di prime cure, la società datrice di lavoro intimava alla stessa lavoratrice un nuovo licenziamento motivato ancora una volta dal superamento - avvenuto quattro anni prima - del periodo di comporto di cui al primo licenziamento. La lavoratrice anche avverso tale secondo licenziamento proponeva ricorso al Giudice del Lavoro, il quale lo accoglieva ritenendo che, poiché la società avrebbe potuto licenziare la dipendente immediatamente al compimento dell'anno di età del bambino, l'avere atteso la sentenza di primo grado, dichiarativa della nullità del primo licenziamento, aveva comportato la non tempestività del secondo. Il Giudice precisava, altresì, che, mentre da un lato non si poteva ritenere il lavoratore assoggettabile a uno stato perenne di risolubilità, dall'altro la prolungata inerzia del datore di lavoro ben poteva essere interpretata come rinuncia implicita alla volontà di porre fine al rapporto.

La Corte d'Appello di Cagliari, accogliendo il gravame svolto da parte datoriale, osservava al contrario che i quattro anni intercorsi tra il superamento del comporto e l'intimazione del secondo licenziamento non erano stati di inerzia da parte del datore di lavoro, avendo quest'ultimo resistito in giudizio sostenendo la legittimità del licenziamento già intimato ed avendo atteso, prima di reiterare la volontà risolutiva, la sentenza di primo grado. Pertanto secondo la Corte d'Appello la condotta datoriale non lasciava adito ad alcun dubbio in ordine alla volontà risolutiva.

Avverso tale pronuncia la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione ribadendo l'intempestività del secondo licenziamento.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando un suo precedente orientamento secondo il quale, mentre nel licenziamento disciplinare vi è l'esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all'incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata. Al contempo, la Corte ha affermato che costituisce onere del lavoratore provare che l'intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza sì da far ritenere - eventualmente in concorso con altre circostanze di fatto significative - la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.

Applicando tali principi al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato come la Corte territoriale avesse accertato che la condotta del datore di lavoro - manifestatasi nella resistenza giudiziale all'impugnazione del primo licenziamento e nella reiterazione del licenziamento stesso, per la medesima ragione, immediatamente dopo la pronuncia giudiziale di nullità del primo recesso - non poteva costituire espressione di una volontà tacita di rinunciare alla facoltà di risolvere il rapporto, dovendosi quindi escludere, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative, la dedotta intempestività, e conseguentemente illegittimità, del secondo licenziamento.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©