Contenzioso

L'attività concretamente svolta determina il corretto inquadramento previdenziale

di Luca De Compadri

La Corte di Cassazione (sentenza 23804/14) affronta la problematica inerente allo svolgimento di distinte attività sotto il profilo del corretto inquadramento previdenziale, ai fini del pagamento dei contributi. In particolare, la Suprema Corte, sviluppa il tema della c.d. prevalenza dell'attività preponderante, in rapporto all'attività di natura promiscua, precisando che la prova relativa alla prevalenza grava sull'ente previdenziale che faccia valere il proprio credito (cfr. Cass. 11 aprile 2014, n. 8558; Cass 11 marzo 2008, n. 6442). A tal fine, l'onere della prova non potrà essere assolto soltanto dalla produzione del certificato della CCIAA o dalla statuto della società, essendo necessaria un'attività di accertamento sostanziale.
Ne deriva che, per verificare se un'attività abbia una prevalente natura commerciale o artigianale, sarà necessario verificare le scritture contabili della società interessata ed analizzare in concreto l'origine dei ricavi.
Giova precisare che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale (Cass. n. 22862/2010; Cass. n. 12108/2010 in conformità peraltro a Cass. n. 19762/2008) in tema di riparto dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 cod. civ., l'onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorché sia convenuto in giudizio di accertamento negativo; ne consegue che nel giudizio promosso da una società per l'accertamento dell'insussistenza dell'obbligo contributivo preteso dall'INPS sulla base di verbale ispettivo, incombe sull'Istituto previdenziale la prova dei fatti costitutivi del credito preteso, rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria. L'opposto indirizzo giurisprudenziale, per lungo tempo dominante, secondo cui l'onere della prova grava sul soggetto che agisce in giudizio (cfr. Cass. n. 11751/2004, n. 23229/2004, n. 2032/2006, n. 384/2007) non risulta, infatti, conforme alla regola fondamentale sulla distribuzione dell'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c.; aggrava ingiustificatamente la posizione di soggetti indotti o praticamente costretti a promuovere un'azione di accertamento negativo dalle circostanze e specificamente da iniziative stragiudiziali o giudiziali mediante strumenti particolarmente efficaci della controparte; non è effettivamente necessitato dalla finalità di prevenire azioni di accertamento non aventi oggettiva giustificazione. Quanto all'art. 2697 c.c., l'affermazione secondo cui la dizione, dallo stesso utilizzata - “chi vuoi far valere un diritto in giudizio” - implica che sia colui che prende l'iniziativa di introdurre il giudizio ad essere gravato dell'onere di “provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, contrasta innanzitutto con la stessa lettera della disposizione, poiché l'attore in accertamento negativo non fa valere il diritto oggetto dell'accertamento giudiziale, ma, al contrario, ne postula l'inesistenza, ed è invece il convenuto che virtualmente o concretamente fa valere tale diritto, essendo la parte contro interessata rispetto all'azione di accertamento negativo. Una considerazione complessiva delle regole di distribuzione dell'onere della prova di cui ai due commi dell'art. 2967 c.c. conferma che esse sono fondate non già sulla posizione della parte nel processo, ma sul criterio di natura sostanziale relativo al tipo di efficacia, rispetto al diritto oggetto del giudizio e all'interesse delle parti, dei fatti incidenti sul medesimo. Dare rilievo all'iniziativa processuale vuol dire, quindi, alterare in radice i criteri previsti dalla legge per la distribuzione dell'onere della prova, addossando al soggetto passivo del rapporto, in caso di accertamento negativo, l'onere della prova circa i fatti costitutivi del diritto e quindi imponendogli la prova di fatti negativi, astrattamente possibile ma spesso assai difficile (in termini, Cass. n. 22862/2010; cfr. Cassazione n.1496506.09.2012).

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